Uno studio internazionale, coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin di Sapienza, identifica un nuovo gene capace di contrastare l’invasione dei patogeni fungini e in particolare di Botrytis cinerea, responsabile della muffa grigia in numerose specie vegetali tra le quali la vite, il pomodoro e la fragola. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Molecular Plant Pathology, aprono a nuove possibilità in ambito agronomico per lo sviluppo di varietà più resistenti senza l’uso di pesticidi pericolosi
Nel settore agronomico i patogeni delle piante rappresentano un grave problema in quanto causano ingenti perdite dei raccolti e in alcuni casi intossicano i cibi di origine vegetale secernendo micotossine potenzialmente pericolose anche per la salute dell’uomo.

Fra gli invasori più comuni e conosciuti vi è la botrite o anche detta la muffa grigia per la peluria cenerina che ricopre la superficie delle foglie facendole seccare e appassire rapidamente.

Per limitare i danni causati da questi patogeni, l’approccio maggiormente utilizzato è il trattamento estensivo con pesticidi, purtroppo con gravi conseguenze sull’inquinamento del suolo e delle falde acquifere. Una soluzione eco-compatibile sono le tecniche di manipolazione genetica mirate a ottenere una maggiore resistenza delle piante ai microbi ambientali, il cosiddetto miglioramento genetico, il cui limite applicativo consiste però nella scarsità di conoscenze sui geni che le piante sfruttano per attivare i meccanismi di difesa immunitaria.


Il presidente dell'Ordine dei Medici di Roma, Antonio Magi, e' stato ospite negli Nsl Studios per partecipare a un dibattito sull'emergenza sanitaria che stiamo vivendo, insieme a Monica Lozzi, presidente del Municipio Roma VII, e Fabio Silo, ceo di Affidea Italia. Sanita' pubblica e privata, il ruolo dei medici di base e le proposte per cercare di fronteggiare questa grave pandemia sono stati i temi trattati.

"Stiamo vivendo una situazione particolare- ha detto Magi- Si sono mischiate le carte durante l'estate, ora abbiamo tanti positivi al Covid, fortunatamente molti sono asintomatici, mentre una parte ha bisogno di assistenza sanitaria e fortunatamente i numeri di terapia intensiva sono abbastanza bassi a Roma e siamo ottimisti sotto questo aspetto. Sicuramente abbiamo un problema per quanto riguarda l'assistenza a livello del territorio, perche' molti pazienti possono essere seguiti nei loro domicili o in strutture quali alberghi che in questo momento sono chiusi e nelle stanze possono essere assistiti per decongestionare i reparti ospedalieri sotto pressione".

 

Una ricerca di Milano-Bicocca formula una nuova ipotesi sulla relazione tra ritmo e dislessia. Lo studio di Milano-Bicocca, realizzato in collaborazione con l'Istituto Besta, è stato pubblicato su Scientific Report.

Milano, 4 novembre 2020 – Alle origini della dislessia ci sarebbe una difficoltà a elaborare il ritmo. Già vari ricercatori si erano accorti che il ritmo ha un ruolo nella dislessia, ma ora sono stati analizzati i motivi. La risposta che emerge dallo studio coordinato dall'Università di Milano-Bicocca è che il ritmo ci permette di prevedere il futuro immediato (circa mezzo secondo) e quindi di prepararci ad agire al momento giusto, requisito fondamentale per leggere fluentemente.

La ricerca, dal titolo "Timing anticipationin adults and children with Developmental Dyslexia: evidence of an inefficient mechanism", è stata coordinata da Maria Teresa Guasti, docente di glottologia e linguistica e da Natale Stucchi, docente di psicologia generale, entrambi del Dipartimento di Psicologia di Milano-Bicocca, in collaborazione con l'Istituto neurologico Besta e con la dottoressa Elena Pagliarini, già dottoranda Bicocca e ora ricercatrice presso l'Università di Padova.


Il melanoma è un tumore che colpisce la pelle o cute, l’organo che riveste completamente il nostro corpo. Tra tutti i tipi di tumori della pelle, è quello meno diffuso ma anche il più pericoloso perché può crescere velocemente e invadere anche i tessuti circostanti: l’incidenza è in continua crescita ed è addirittura raddoppiata negli ultimi 10 anni, soprattutto in età giovanile. Abbiamo chiesto alla Dott.ssa Evelyn Jasmin Paternò, specialista in Dermatologia e Venereologia presso i Poliambulatori Specialistici San Raffaele Termini e Tuscolana, di parlarci del melanoma, per spiegarci come prevenirlo e anche quali sono i segnali che possono aiutare a identificarlo.

 “Il melanoma è un tumore che deriva dai melanociti, le cellule che producono la melanina. Nell’85% dei casi insorge sulla cute, mentre nella restante percentuale interessa le sedi extracutanee (apparato oculare, leptomeningi, pleura, mediastino, apparato digerente, peritoneo, tendini e aponevrosi). Il 75-80% del melanoma cutaneo insorge su cute sana, mentre la rimanente parte, si sviluppa su un neo preesistente o su lesione precancerosa (Armstrong and Kricker, 1994).

 Secondo la classificazione di Clark (1967), modificata da Reed nel 1976 suddividiamo il melanoma in 4 varianti principali:

Melanoma a diffusione superficiale - è la forma più frequente, rappresentando il 60-70% di tutti i melanomi in pazienti caucasici;
Melanoma nodulare - rappresenta il 10% dei melanomi. Appare clinicamente come una lesione papulo-nodulare di colorito marrone-nerastro o anche parzialmente ipopigmentata, che talvolta si può ulcerare;
Lentigo Maligna Melanoma (LMM) - rappresenta il 10% dei melanomi ed insorge in pazienti dalla pelle bianca, tipicamente anziani in sedi foto esposte, come il viso ed il collo;
Melanoma acrale lentigginoso - è la forma più frequente in pazienti di origine asiatica (45-50%), mentre rappresenta il 5% delle forme in pazienti dalla pelle bianca ed è distinto, a seconda della sede, in palmare, plantare, subungueale e auricolare. Si manifesta clinicamente in varia maniera, da macchie lentigginose di colore marrone-nerastro a noduli iperpigmentati con ulcerazione”.

 

Un gruppo di ricerca tutto italiano, coordinato da Robin Foà del Dipartimento di Medicina traslazionale e di precisione di Sapienza, ha dimostrato che una combinazione di terapia mirata a bersaglio molecolare e immunoterapia può fronteggiare con successo il tipo più frequente di leucemia acuta linfoblastica degli adulti, evitando la chemioterapia e i suoi pesanti effetti collaterali. I risultati dello studio, promosso dalla Fondazione GIMEMA, sostenuto dal 5 per mille di Fondazione AIRC e con il contributo di Amgen, sono stati pubblicati sulla rivista New England Journal of Medicine il 22 ottobre scorso. L’importanza del lavoro è stata sottolineata anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo intervento durante la cerimonia dedicata a “I Giorni della Ricerca” di Fondazione AIRC al Quirinale il 26 ottobre.


Nell'imminente stagione influenzale è probabile che i virus dell'influenza classici si diffondano sovrapponendosi al nuovo coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della Covid-19. Il rischio di non riuscire a distinguere tra un'infezione e l'altra non è solo un problema per il sistema sanitario, che potrebbe andare incontro ad un inutile sovraccarico; ma ha anche un forte impatto sociale, soprattutto per i più piccoli, dato che i bambini rappresentano la fascia con il maggior indice di contagio per l'influenza. Le misure di prevenzione attuali, tra le altre cose, prevedono di sospendere le attività scolastiche in caso di sospetto contagio: una situazione che sarebbe molto problematica, anche per l’impatto che l’isolamento sociale e scolastico prolungato potrebbe avere sullo sviluppo delle competenze nei bimbi. Vaccinarsi contro l'influenza è un possibile aiuto: ne abbiamo parlato con Paola Marchisio, direttore della Pediatria ad Alta Intensità di Cura del Policlinico di Milano.

 Quali sono i rischi dell'influenza nei bambini?

La diffusione dei virus influenzali generalmente raggiunge il picco all’inizio del mese di febbraio, colpendo soprattutto la popolazione in età pediatrica (0-4 anni e 5-14 anni) e, tra questi, in particolar modo i bimbi più piccoli. Molti studi hanno dimostrato che i bambini sotto i 2 anni di vita hanno un rischio aumentato di sviluppare una malattia grave, così come i bimbi colpiti da immunodeficienza e/o con malattie respiratorie croniche. Tuttavia, forme gravi di influenza si possono verificare anche in persone sane.

 

 


Ricercatrici del Dipartimento di Biologia cercano risposte alla rara patologia cranio-facciale che colpisce i bambini


Generare nuovi modelli per studiare gli effetti di tre mutazioni del gene TCF4 che causano la sindrome di Pitt-Hopkins, una rara patologia cranio-facciale che colpisce i bambini. È questo l’obiettivo di un progetto di ricerca coordinato dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa che è stato finanziato dalla Comunità Europea nell’ambito del Consorzio Solve-RD, “Solving the unresolved rare diseases”. Il team di ricerca è composto dalla professoressa Michela Ori, responsabile del progetto, dalla dottoranda Miriam De Sarlo e dalla ricercatrice Chiara Gabellini. Partner della ricerca è il Centro Ospedaliero Universitario di Digione, in Francia, coordinato dal professor Antonio Vitobello.

Le ricercatrici utilizzeranno biotecnologie molecolari e tecniche di gene editing su modelli oggi ampiamente impiegati negli studi di biomedicina – come le larve del pesciolino Danio rerio (zebrafish) e della rana Xenopus laevis – per capire come queste mutazioni creino difetti nello sviluppo embrionale. Obiettivo finale è generare modelli ad oggi non esistenti su cui testare eventuali interventi terapeutici e che potranno essere utilizzati da tutta la comunità scientifica per studiare più approfonditamente le patologie associate a mutazioni in questo gene.



La scoperta apre la strada per un potenziale trattamento antivirale che colpisce un meccanismo di entrata del virus nelle cellule  

Un team di scienziati internazionali, guidati dall’Università di Bristol, ha fatto una scoperta rivoluzionaria che potrebbe aver identificato che cosa rende il virus SARS-CoV-2 così infettivo e capace di diffondersi rapidamente nelle cellule umane. La scoperta, pubblicata su Science martedì 20 ottobre, dimostra che l’abilità del virus di infettare le cellule umane si può ridurre utilizzando degli inibitori che bloccano l’interazione tra il virus e una nuova proteina sulle nostre cellule. Questa osservazione potrebbe portare allo sviluppo di nuovi trattamenti antivirali. 

A differenza di altri coronavirus, che causano raffreddore e lievi sintomi respiratori, SARS-CoV-2, che è l’agente causativo del COVID-19, è altamente infettivo e trasmissibile. Finora, una delle domande rimaste ancora senza risposta riguarda il perché questo virus sia capace di infettare facilmente organi che risiedono fuori dal sistema respiratorio, per esempio cuore e cervello. 

Per infettare gli esseri umani, il SARS-CoV-2 deve prima di tutto attaccarsi alla superficie delle cellule che ricoprono il tratto respiratorio o intestinale. Una volta adeso, il virus invade le cellule e si replica al loro interno generando un gran numero di copie di se stesso. Le copie del virus sono poi rilasciate dalle cellule e questo processo sostiene la trasmissione del virus. 


Scoperta una molecola in grado di attivare la rigenerazione delle cellule muscolari fino all'età geriatrica. Lo studio, frutto della collaborazione tra la Sapienza e laboratori europei e statunitensi, apre la strada a nuove possibilità terapeutiche anche per i soggetti affetti da patologie neuromuscolari. La ricerca è pubblicata sulla rivista Nature Cell Biology

Con l’avanzare dell’età i muscoli tendono a perdere parte della massa, e dunque della forza, oltre che la capacità di ripararsi e rigenerarsi in seguito a traumi o danni. Aumenta così nelle persone più anziane il rischio della perdita di autonomia e di una maggiore fragilità.

Un nuovo studio internazionale, coordinato dall’Università Pompeu Fabra di Barcellona con la partecipazione di numerosi laboratori, tra cui quello del gruppo di Antonio Musarò della Sapienza Università di Roma, e pubblicato sulla rivista Nature Cell Biology, ha permesso di individuare il potenziale meccanismo che permetterebbe di mantenere giovani le cellule staminali dei muscoli nei soggetti anziani. Si tratta di un fattore di trascrizione, FoxO, che regola l’espressione genica, quella serie di eventi che traducono le informazioni contenute in un gene e che portano alla formazione di una proteina.


Ricercatori della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e dell’Università Cattolica, campus di Roma hanno dimostrato che quasi un paziente su 5 (il 16,7%) dei guariti dalla sindrome Covid-19 continua ancora a essere positivo al tampone per il coronavirus per alcune settimane.

È quanto emerso da uno studio pubblicato sull'American Journal of Preventive Medicine e condotto dal professor Francesco Landi del Dipartimento di Scienze dell'Invecchiamento, Neurologiche, Ortopediche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e docente Facoltà di Medicina e chirurgia all’Università Cattolica, campus di Roma.

Lo studio ha coinvolto 131 pazienti Covid-19: si è visto che 22 dei pazienti (16.7%), pur rispettando tutti i criteri per terminare la quarantena, hanno continuato a presentare il tampone positivo. La probabilità di restare positivi al SARS-CoV-2 è più alta tra coloro che presentano ancora dei sintomi.

 

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