Uno studio clinico pilota ha dimostrato per la prima volta un aumento della chemochina Prochineticina 2 (PK2) nel siero di malati di Parkinson, suggerendone un potenziale ruolo protettivo. Il lavoro, pubblicato su Movement Disorders, è stato realizzato dall’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Cnr con le Università di Roma, Sapienza e Tor Vergata.


Un team di ricercatori ha potuto dimostrare per la prima volta un significativo aumento della chemochina Prochineticina 2 (PK2), un peptide chemochino-simile, nel siero di pazienti affetti da malattia di Parkinson. I risultati di questo studio pilota condotto da Cinzia Severini dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc), da Nicola Biagio Mercuri e Tommaso Schirinzi della Clinica neurologica dell’Università di Roma Tor Vergata e da Roberta Lattanzi e Daniela Maftei del Dipartimento di fisiologia e farmacologia della Sapienza Università di Roma sono stati pubblicati su Movement Disorders. Lo studio ha analizzato il sangue di 31 pazienti con malattia di Parkinson e per la prima volta è stato dimostrato che i livelli serici di PK2 risultano significativamente aumentati rispetto a soggetti sani di controllo.

 

Pubblicato sulla rivista The Lancet uno studio della Cardiologia universitaria della Città della Salute, svolto con i ricercatori di UniTo e PoliTo, per la creazione di un nuovo sistema di classificazione del rischio di eventi futuri nei pazienti dopo un infarto. Una tecnica che determinerà una vera rivoluzione e ridurrà statisticamente la possibilità di una non corretta diagnosi. Questo risultato rafforza la scelta di Torino come sede dell’Istituto Italiano di Intelligenza Artificiale

 Straordinario risultato di una ricerca coordinata dalla Cardiologia universitaria dell'ospedale Molinette della Città della Salute di Torino (diretta dal professor Gaetano Maria De Ferrari), assieme al Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino ed a quello di Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino. Gli autori hanno utilizzato quell’approccio dell’Intelligenza Artificiale chiamato Machine Learning o di apprendimento automatico, secondo il quale i computer imparano progressivamente dai dati che vengono loro forniti migliorando sempre più le loro capacità predittive ed individuando correlazioni. In questo caso, il risultato è stato la creazione di un nuovo sistema di classificazione del rischio di eventi futuri nei pazienti dopo un infarto. La assoluta novità e la grande efficacia di questo nuovo approccio sono valse alla ricerca la pubblicazione, oggi 15 gennaio, sulla rivista di medicina più blasonata al mondo, The Lancet.


I Ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù con il sostegno di AIRC e Ministero della Salute hanno realizzato uno studio che permette di identificare i pazienti che rispondono meglio alle terapie immunologiche. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature Communications. Identificati due nuovi marcatori cellulari e genetici in grado di predire la sopravvivenza dei pazienti affetti da neuroblastoma. La scoperta è il frutto di uno studio realizzato dall’area di ricerca di Oncoematologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, in collaborazione con la Fondazione Bruno Kessler di Trento. La ricerca, finanziata da AIRC e Ministero della Salute, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature Communications. Oltre a fornire nuovi strumenti per la prognosi, i risultati ottenuti consentiranno di individuare i pazienti oncologici che potranno beneficiare maggiormente di terapie immunologiche per sconfiggere il tumore.


LA MALATTIA
Il neuroblastoma è il tumore solido extracranico più comune dell’età pediatrica (rappresentando circa il 7- 8% dei tumori nei bambini). L'età media alla diagnosi è di 18 mesi e nel 90% dei casi il neuroblastoma si manifesta prima dei 7-8 anni di vita. Nella metà dei pazienti, il neuroblastoma viene diagnosticato nella sua forma metastatica, e causa il 15% delle morti in oncologia pediatrica. Le attuali terapie, per quanto articolate e comprendenti vari approcci, non sono purtroppo sufficienti per eradicarlo definitivamente in una larga percentuale di pazienti.

 

Un dolore intenso nella zona del tallone che spesso rende difficile camminare, così si presenta la sintomatologia tipica della tallonite che può interessare adulti e bambini e che ha all’origine numerose cause. Abbiamo chiesto al Prof. Alfredo Carfagni, Medico Chirurgo, specialista in Ortopedia e Traumatologia presso il Poliambulatorio Specialistico San Raffaele Termini, di far luce sulla natura di questa infiammazione e sulle possibili cure.

 Che cos’è e come diagnosticarla

La talalgia plantare, o tallonite, “è un’infiammazione che colpisce la zona del retropiede inferiore e interessa soprattutto il calcagno (l’osso più voluminoso del tarso, che costituisce il tallone) e quindi la parte plantare, che si infiamma provocando dolore” più forte al mattino, nella fase del risveglio e meno intenso nel corso della giornata. “A parte questo dolore localizzato, la tallonite non presenta arrossamento o manifestazioni cutanee nell’area interessata. Può però essere determinata da molteplici cause e per questo è giusto rivolgersi fin da subito ad uno specialista per indagare l’origine dell’infiammazione attraverso un esame radiografico bilaterale ed assiale del calcagno o un’ecografia della fascia plantare del piede".

 

“Sicuri al cuore” è un progetto che prevede un sito web, uno spot con Claudio Amendola, incontri virtuali con i pazienti e videoclip per spiegare le misure messe in campo nei reparti di cardiologia per garantire la massima efficienza e sicurezza anche in piena pandemia. Il Presidente Tarantini: “Le procedure invasive oggi sono più che mai strategiche: salvano la vita, ne aumentano l’aspettativa, riducono i tempi di degenza e possono evitare la terapia intensiva”.

Roma, 11 gennaio 2021 – “In caso di dolore al petto o affanno del respiro occorre chiamare subito il 118. Le procedure urgenti vengono effettuate giorno e notte, in tutti i centri di riferimento per il trattamento invasivo delle patologie cardiovascolari. L’ospedale resta luogo di cura e al suo interno viene presa ogni misura necessaria per la prevenzione delle infezioni, proteggendo i pazienti e gli operatori, mediante dettagliati protocolli di sicurezza”. Questo l’appello di Giuseppe Tarantini, Direttore Emodinamica e Cardiologia Interventistica dell’Azienda ospedaliera Università di Padova e Presidente del GISE, la Società Italiana di Cardiologia Interventistica che ha promosso Sicuri al cuore, la prima campagna nazionale per riportare in ospedale i pazienti cardiovascolari spaventati dal contagio da Covid-19.

 

La maculopatia essudativa (AMD essudativa) ossia la degenerazione maculare legata all'età di tipo neovascolare (Neovascolar Age- related Macular Degeneration, nAMD) è una grave patologia oculare che interessa la macula, ossia la porzione della retina centrale e responsabile della visione fine e dettagliata che ci permette di riconoscere un volto, leggere, eseguire lavori di precisione, guidare l'auto etc.

Nei Paesi tecnologicamente avanzati, l'incidenza dell'AMD è aumentata fortemente e continua ad aumentare a causa in primo luogo dell'incremento della vita media e della concomitanza di numerosi altri fattori ambientali e nutrizionali oltre a quelli genetici talora predominanti. L'AMD colpisce infatti circa l'11% delle persone di età compresa tra i 65 e i 74 anni e tale percentuale cresce sensibilmente man mano che si considerano fasce d'età più avanzata. Oggigiorno l'AMD rappresenta la causa più comune di cecità legale e di ipovisione nelle persone di età superiore ai 55 anni.

 L'AMD può presentarsi in due forme: l'AMD atrofica (o non-neovascolare o secca) e l'AMD essudativa (o neovascolare o umida). L'AMD esordisce solitamente nella forma atrofica (90% dei casi) e più raramente (10% dei casi) nella forma essudativa. In alcuni pazienti l'AMD atrofica può evolvere in forma essudativa.



I ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Università di Harvard hanno individuato una condizione anticipatrice delle temperature anomale nella stratosfera polare da cui hanno origine i fenomeni che permettono all’aria gelida di raggiungere le medie latitudini come le nostre. Il meccanismo analizzato dallo studio curato da Mostafa Hamouda e Claudia Pasquero dell’Università di Milano-Bicocca insieme a Eli Tziperman dell’Università di Harvard offre anche una spiegazione al legame tra il riscaldamento globale e l’aumento degli eventi di freddo estremo. I risultati del lavoro di ricerca sono stati pubblicati su “Nature Climate Change” nell’articolo dal titolo “Decoupling of the Arctic Oscillation and North Atlantic Oscillation in a warmer climate” (https://www.nature.com/articles/s41558-020-00966-8).

Le condizioni meteorologiche invernali alle medie latitudini sono fortemente influenzate dal cosiddetto vortice polare, una circolazione atmosferica che intrappola l’aria fredda dell’Artico alle alte latitudini e le impedisce di raggiungere altre zone del globo. In media una volta ogni due anni, il vortice polare si indebolisce e permette all’aria gelida di raggiungere le medie latitudini: un fenomeno, questo, che può arrivare ad interessare anche il nostro paese. Ricordiamo ad esempio l’abbondante nevicata a Roma del 2018 e il febbraio 2012 in cui la temperatura in pianura Padana scese sotto i -20°C e la laguna Veneta ghiacciò.


La stanchezza non è un sintomo riconducibile alla colangite biliare primitiva (CBP). Una ricerca condotta dal Centro delle Malattie Autoimmuni del Fegato dell’Ospedale San Gerardo di Monza e dai Dipartimenti di Medicina e di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca ha escluso una relazione diretta con la patologia del fegato, individuando in altri fattori una possibile causa di stanchezza e affaticabilità.

La CBP è una malattia del fegato che, benché rara, in Italia colpisce più di 10.000 persone, soprattutto donne oltre i 40 anni di età. Da più di 30 anni studiosi del nord Europa sostengono che pazienti affetti da CBP soffrono molto di stanchezza ed affaticabilità (“fatigue” in inglese), sintomi che non trovavano riscontro nell’esperienza clinica di altri medici e studiosi che operano in altre parti nel mondo. A rendere ancora più complessa la comprensione del problema ha contribuito per lungo tempo la mancanza di strumenti adeguati per valutare la “stanchezza ed affaticabilità”. Una scarsa chiarezza che ha creato e crea molti problemi ai pazienti ed ai loro medici curanti.

 

 

Pubblicato sulla rivista Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry un articolo nel quale si dimostra che una significativa alterazione della percezione soggettiva del dolore è presente in soggetti affetti da Demenza Fronto-temporale portatori di mutazione C9orf72. La percezione può essere aumentata o ridotta ed è associata ad una significativa atrofia, documentata con sequenze di risonanza magnetica, di una specifica area cerebrale, il circuito talamo-cortico-striatale.

Del gruppo di ricercatori, riuniti in un consorzio internazionale, fanno parte la dott.ssa Daniela Galimberti ed il prof. Elio Scarpini, del Centro Dino Ferrari dell’Università Statale di Milano e del Policlinico di Milano.

Lo studio è stato condotto su pazienti affetti da Demenza Fronto-temporale, la seconda causa (dopo la malattia di Alzheimer) di decadimento cognitivo prima dei 65 anni, caratterizzata clinicamente da disturbi psico-comportamentali quali disinibizione, alterazioni della condotta sociale, aggressività e da una riduzione di volume di aree cerebrali specifiche. In circa il 20% dei casi è possibile identificare una mutazione in uno dei tre geni principali (progranulina, MAPT e C9ORF72).


La ricerca dell’Università di Pisa e del Politecnico delle Marche su Scientific Reports. Il modello permetterà di comprendere gli effetti di farmaci e alimenti e di personalizzare terapie e dieta


Un gruppo di scienziati ha per la prima volta creato in laboratorio un modello 3D in vitro di microbiota intestinale umano. Il modello permetterà in futuro di comprendere gli effetti di farmaci e alimenti sui singoli individui e di personalizzare terapie e dieta. La ricerca illustrata con un articolo sulla rivista Scientific Reports è stata condotta da Giovanni Vozzi ed Emilia Ghelardi dell’Università di Pisa e da Monica Mattioli Belmonte dell’Università Politecnica delle Marche.


“Attualmente non esistono altri dispositivi capaci di riprodurre con tale fedeltà topologica, meccanica e biochimica la generazione e l’evoluzione del microbiota intestinale umano – spiega il bioingegnere Giovanni Vozzi – il modello è costituito da strutture polimeriche naturali nanofabbricate sulle quali abbiamo innestato le colture di microbiota intestinale, questo ci ha permesso di replicare in modo fedele lo strato di biofilm batterico presente nell’intestino umano così da valutare l’effetto di farmaci, probiotici, prebiotici e degli alimenti sulla composizione e biodiversità delle popolazioni microbiche residenti”.
Nell’ambito della ricerca, il gruppo di Giovanni Vozzi, ha realizzato la struttura, in termini tecnici lo “scaffold” polimerico naturale elettrofilato, su cui è stato impiantato il biofilm batterico. Il gruppo di Emilia Ghelardi, si è occupato invece della semina e della crescita del microbiota intestinale sul supporto polimerico e della sua caratterizzazione mediante studi di metagenomica e real-time PCR quantitativa.

 

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