Svelati i meccanismi molecolari della stimolazione elettrica transcranica che aiutano a ridurre l’accumulo di proteine alla base delle malattie neurodegenerative. A rivelarlo è lo studio “Direct current stimulation enhances neuronal alpha-synuclein degradation in vitro”, appena pubblicato su Scientific Reports, realizzato da  Gessica Sala, tecnologa presso NeuroMi – Milan Center for Neuroscience, diretto da Carlo Ferrarese.

Attraverso un modello neuronale umano, lo studio ha dimostrato che la stimolazione a corrente diretta continua (DCS) è in grado di interferire sullo stato di aggregazione e sulla degradazione della proteina alfa-sinucleina, il cui accumulo è associato alla degenerazione neuronale nei pazienti affetti da malattia di Parkinson.

Oltre ai ricercatori di Milano-Bicocca, hanno collaborato allo studio i neurologi Tommaso Bocci e Alberto Priori, entrambi del Dipartimento di Scienze Umane - Centro “Aldo Ravelli” per le Neurotecnologie e le Terapie Neurologiche Sperimentali, Dipartimento di Scienze della Salute (Università degli Studi di Milano-Statale e ASST Santi Paolo e Carlo, Milano) esperti in tecniche di neurostimolazione applicate a diverse patologie neurologiche tra cui la malattia di Parkinson, e Marta Parazzini, ingegnere dell’Istituto di Elettronica e di Ingegneria dell'Informazione e delle Telecomunicazioni (CNR di Milano).

Lucia Manni

 

Team di ricerca internazionale svela come un organismo costituito da molte cellule e organi possa originare da poche cellule staminali.
Una delle domande più affascinanti che tutti noi ci poniamo è come un organismo costituito da molte cellule diverse e da molti organi possa svilupparsi a partire da una singola cellula fecondata.
La domanda diventa ancora più intrigante se lo stesso organismo, con le stesse cellule e gli stessi organi, può formarsi anche a partire da poche cellule staminali. Questo è quello che succede nella riproduzione asessuata che caratterizza le specie animali coloniali.


Un gruppo di ricerca guidato dalla professoressa Lucia Manni del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, in collaborazione con ricercatori dell’Università di Stanford, ha provato a indagare i meccanismi molecolari e morfologici che determinano lo sviluppo sessuato e asessuato di un piccolo invertebrato marino, Botryllus schlosseri, che si trova facilmente anche nella Laguna di Venezia.
Le colonie di Botryllus possono essere formate da centinaia di individui, geneticamente uguali tra di loro. Questi sono raggruppati a formare piccole unità a forma di fiore: ogni petalo è un individuo adulto. Grazie alle cellule staminali della colonia, ogni adulto può formare più gemme per riproduzione asessuata, che crescono diventando nuovi individui.


Uno studio condotto dall’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Cnr di Bari, assieme all’Università degli Studi di Bari e all’Università Statale di Milano, ha permesso di realizzare un applicativo per facilitare l’analisi del genoma del coronavirus. La piattaforma, accessibile senza alcun tipo di vincolo o restrizione, rappresenta un utile strumento per capire i possibili effetti funzionali delle “varianti” del genoma del virus, con potenziali implicazioni anche per lo sviluppo di terapie e vaccini. Il metodo è stato pubblicato su Bioinformatics.


Un team di ricercatori dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibiom) di Bari, dell’Università Aldo Moro di Bari e del Dipartimento di bioscienze dell’Università Statale di Milano ha recentemente sviluppato un nuovo strumento software per facilitare l’analisi del genoma del coronavirus SARS-CoV2, l’agente patogeno che causa il COVID-19. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Bioinformatics. Durante la pandemia sono stati sequenziati e resi disponibili più di 400 mila sequenze genomiche appartenenti a differenti ceppi del patogeno isolati in diverse regioni del mondo. L’analisi di questa mole di dati ha richiesto lo sviluppo di nuovi strumenti e metodi informatici dedicati. Per contribuire a rispondere a queste esigenze, gli autori dello studio hanno sviluppato CorGAT (Coronavirus Genome Analysis Tool), uno strumento dotato di un’interfaccia web che ne facilita l’utilizzo e accessibile a tutta la comunità scientifica.


Lo studio dell’Università di Pisa e dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS) ha conquistato la copertina della rivista scientifica “Cancers”. Le proteine prioniche, conosciute soprattutto per le forme alterate che portano al Morbo della mucca pazza, svolgono un ruolo fondamentale nella crescita e nella diffusione delle cellule cancerose


Si è guadagnato la copertina della prestigiosa rivista “Cancers” l’articolo scientifico nato dalla collaborazione tra il gruppo dell’Università di Pisa guidato da Luca Morelli, professore associato di Chirurgia generale e l’Unità di Neurobiologia e dei Disturbi del Movimento dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS). Si tratta di una attenta analisi, con l’aggiunta di nuovi dati, rivolta ad approfondire una delle più recenti e interessanti strade nel campo dello studio dei tumori: il ruolo svolto dai prioni nello sviluppo del cancro e nella sua diffusione.

I prioni avevano avuto un momento di grande notorietà a cavallo del millennio perché una loro forma alterata (PrPsc) è responsabile del morbo di Creutzfeldt-Jakob (la “mucca pazza”). La scoperta era valsa all’americano Stanley Prusiner il Nobel per la medicina nel 1997. Ora l’attenzione si sta spostando, come evidenzia la “review” realizzata dall’Università di Pisa e dal Neuromed, sulla presenza di queste proteine in alcuni tipi di tumore, documentando anche un possibile ruolo nella genesi e nella aggressività biologica del cancro. Si parla soprattutto di tumori del sistema nervoso centrale, come il glioblastoma multiforme, ma recentemente sono emerse evidenze anche per quanto riguarda tumori dell’apparato gastrointestinale, del seno, della prostata e del pancreas, per citarne solo alcuni.

 


Non solo tosse, febbre, bronchite o polmonite. Il Covid 19 ha anche altre strade attraverso cui manifestarsi: per esempio la pelle, con apparenti "banali" alterazioni cutanee. Uno studio tutto italiano, condotto con il supporto della Societa' Italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle Malattie Sessualmente Trasmesse (SIDeMaST) e pubblicato sul prestigioso Journal of the American Academy of Dermatology, infatti, ne ha individuate ben 6 che possono essere una manifestazione del Coronavirus associata a diversi stadi della malattia.

"Fin dall'inizio della pandemia COVID-19- afferma la Professoressa Ketty Peris, Presidente SIDeMaST e Direttrice dell'U.O.C. di Dermatologia del Policlinico Gemelli di Roma- SIDeMaST si e' attivata portando avanti diversi studi scientifici focalizzati su malattie cutanee ed infezione SARS-CoV2 e svolgendo numerose attivita' di supporto per i pazienti affetti da malattie della pelle. Lo studio coordinato dal Professor Marzano e' particolarmente interessante perche' conferma che la cute puo' essere spia di una infezione da Sars-CoV-2. Per questo motivo, e' fondamentale controllare ancora di piu' la nostra pelle, perche' potrebbe metterci in guardia ed avvisarci preventivamente su quello che accade nel nostro organismo, dandoci la possibilita' di muoverci in anticipo e aiutarci a fare una diagnosi precoce della malattia ed anche evitare possibili ulteriori contagi". A coordinare lo studio nazionale "The clinical spectrum of COVID-19-associated cutaneous manifestations: an Italian multicentre study of 200 adult patients", il Professor Angelo Valerio Marzano, Professore Ordinario di Dermatologia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Dermatologia e Venereologia dell'Universita' degli Studi di Milano, Associate Editor dell'Italian Journal of Dermatology and Venereology. Il Professor Marzano e' stato anche il primo paziente ad essere ricoverato per Coronavirus il 22 febbraio 2020 a Milano, subito dopo il Paziente 1 di Codogno.


La leucemia linfoblastica 'Philadelphia positiva' è stata considerata, prima dell'avvento dei farmaci basati sugli inibitori delle tirosin chinasi, tra le leucemie a prognosi peggiore. Ora è in fase di sperimentazione una nuova terapia che permetterebbe "una sopravvivenza globale del 95% a 18 mesi", un successo che migliora significativamente i risultati delle cure ad oggi applicate. Il nuovo trattamento non utilizza la chemioterapia nelle fasi iniziali della terapia, ma la combinazione di un inibitore delle tirosin chinasi (dasatinib) e di un anticorpo (blinatumomab). A dimostrarne questa efficacia preliminare è uno studio pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal Medicine, che vede tra i suoi autori Nicola Fracchiolla, responsabile del Programma Leucemie acute dell'Unità di Ematologia del Policlinico di Milano.


La risposta sale al 100% dopo 7 giorni dalla seconda somministrazione. I risultati del monitoraggio effettuato dall’Ospedale Pediatrico della Santa Sede.
A 21 giorni dalla somministrazione della prima dose del vaccino anti-SARS-CoV-2, il 99% dei vaccinati ha sviluppato anticorpi contro il virus. Sono i dati del primo monitoraggio realizzato tra gli operatori sanitari dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù dall’équipe della Medicina del Lavoro e della struttura complessa di Microbiologia, con il supporto dell’Immunologia clinica e il coordinamento della Direzione sanitaria.
Ad oggi, al Bambino Gesù, la prima dose di vaccino è stata somministrata a quasi 3.000 operatori sanitari “negativi” (ovvero mai entrati in contatto con il virus SARS CoV-2), la seconda dose a 1.425 operatori. Il monitoraggio a 21 giorni dalla prima dose ha rilevato una risposta anticorpale positiva nel 99% dei vaccinati esaminati, con la produzione di una quantità di anticorpi specifici (titolo anticorpale) 50 volte superiore alla soglia di negatività. 7 giorni dopo la seconda dose, gli anticorpi sono stati sviluppati dal 100% dei vaccinati finora valutati, con un titolo anticorpale di circa 1.000 volte superiore alla soglia di negatività, indice di elevato tasso di potenziale protezione.


Un nuovo studio condotto dalla Sapienza in collaborazione con il laboratorio dell’Istituto Pasteur-Italia ha identificato i potenziali marcatori della progressione della Sclerosi Laterale Amiotrofica: sono piccole molecole di RNA non codificante, i microRNA. Lo studio è stato da poco pubblicato su Cell Death Discovery
Sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Nota anche come malattia dei motoneuroni perché causa una graduale perdita di queste cellule che impartiscono ai muscoli il comando del movimento. È una malattia degenerativa che porta progressivamente alla paralisi e al decesso del paziente entro pochi anni dalla comparsa dei sintomi.

Il decorso non è però uguale in tutti pazienti, e fino a oggi, le basi molecolari che potessero spiegarlo erano sconosciute: molti biomarcatori sono stati descritti per diverse patologie neurodegenerative, ma per nessuno di loro era stata riscontrata una specifica correlazione con la SLA.


I ricercatori dell’Università Statale di Milano hanno osservato in un modello sperimentale l’impatto critico dello stress durante il periodo prenatale: nei piccoli nati da mamme sottoposte a stress, la malattia della sclerosi multipla si manifesta in età adulta con sintomi neurologici più gravi. Una speranza dai farmaci antidepressivi.


Vivere esperienze di stress fisico e psichico può rappresentare un importante fattore di rischio per lo sviluppo o l’esacerbazione di malattie di diversa natura, alcune delle quali prive di una terapia farmacologica davvero efficace. In questo contesto un gruppo di ricercatori dell’Università Statale di Milano, guidato da Raffaella Molteni, si è chiesto se e come un’esperienza stressante potesse influenzare lo sviluppo di sclerosi multipla, una delle più note malattie neurodegenerative di natura infiammatoria associate a demielinizzazione. Poiché le conoscenze attuali su stress e sclerosi multipla sono limitate a studi che hanno esaminato eventi avversi avvenuti in età adulta, i ricercatori hanno ipotizzato che - come avviene in molte altre malattie a carico del sistema nervoso centrale - lo stress possa avere un impatto altrettanto critico durante il periodo prenatale, quando eventi stressanti subiti dalla mamma durante la gestazione possono influenzare lo sviluppo del sistema nervoso centrale del nascituro. Infatti, in questa fase del neurosviluppo, il sistema nervoso è particolarmente vulnerabile a danni potenziali che, pur senza indurre segni apparenti a tempi precoci, lasciano una “traccia di vulnerabilità” che si può manifestare in età adulta a seguito di ulteriori sollecitazioni.


Pubblicato su Nature communications dai ricercatori dell’Università Statale di Milano e dell’Università di Bari il primo studio del progetto COVIDinPET: dai tamponi e test sierologici effettuati sugli animali domestici risulta che alcuni sono entrati in contatto con il virus SARSCoV-2 ma non sviluppano la malattia COVID-19.


Pubblicato su Nature communications il primo studio del progetto COVIDinPET (Genetic characterization of SARS-CoV2 and serological investigation in humans and pets to define cats and dogs role in the COVID-19 pandemic) che ha coinvolto, tra i partner del progetto, i ricercatori del dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Milano e quelli dell’Università di Bari, nonché il dipartimento Sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell’Istituto Superiore di Sanità, una rete di collaboratori internazionali guidata dall’Università di Liverpool e alcuni laboratori veterinari italiani. Nello studio sono stati arruolati 919 cani e gatti provenienti da aree del territorio nazionale (in particolare dalla Lombardia) in cui nella prima ondata della pandemia la prevalenza della malattia nell’uomo è risultata particolarmente elevata.

Nell’ambito dello studio sono stati eseguiti tamponi molecolari orofaringei, nasali o rettali per la ricerca di SARS-CoV2, e/o esami sierologici per la ricerca di anticorpi anti-SARS-CoV-2. In 528 casi erano noti i risultati di test molecolari condotti sui proprietari degli animali. Tutti i 494 tamponi processati sono risultati negativi, inclusi quelli prelevati da cani o gatti con sintomi respiratori o conviventi con proprietari che sono stati COVID-19 positivi.

 

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