“Grazie ad un finanziamento della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla e alla collaborazione con il gruppo della prof.ssa Maria Pia Abbracchio” spiega la prof.ssa Molteni “abbiamo dimostrato che l’esposizione della mamma, durante la fase terminale della gravidanza, a un lieve stress da contenimento non associato ad alcun danno fisico o sofferenza, aggrava nei piccoli, dopo il raggiungimento dell’età adulta, le manifestazioni cliniche associate all’induzione di encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE), un modello di sclerosi multipla”. “Abbiamo notato che, nei piccoli nati da mamme sottoposte a stress, la malattia si manifesta in età adulta con sintomi neurologici più gravi sia durante la fase acuta che durante la successiva fase cronica rispetto ai piccoli nati da mamme che non avevano subito stress durante la gravidanza” aggiungono Davide Marangon e Davide Lecca, che hanno messo a disposizione dello studio il modello di EAE “e che la maggior gravità dei sintomi neurologici è associata a un deficit della mielina, la sostanza che avvolgendo i prolungamenti dei nervi ne assicura la funzionalità”.
Secondo gli autori dello studio, pubblicato su Cellular and Molecular Neurobiology, il deficit osservato nel processo di mielinizzazione contribuisce a sua volta a ridurre i livelli di Brainderived neurotrophic factor, un fattore di crescita nervoso fondamentale per il mantenimento e la funzione della cellula nervosa. “Abbiamo osservato in particolare una forte riduzione della forma di questa neurotrofina che viene normalmente accumulata nei dendriti dei neuroni, dove svolge un ruolo prioritario nello sviluppo e nel mantenimento della plasticità neuronale” osserva
Maria Serena Paladini, prima autrice dello studio “Quindi, l’esposizione temporanea a stress nell’ultima fase della gravidanza induce effetti permanenti sui sistemi molecolari che regolano la risposta plastica delle cellule nervose, rendendole maggiormente sensibili ad insulti dannosi che possono verificarsi anche molto tempo dopo la nascita”.
“Esistono in realtà numerosi farmaci in grado di aumentare i livelli di BDNF, tra questi gli antidepressivi” conclude la coordinatrice dello studio, Raffaella Molteni. In effetti, sclerosi multipla e depressione hanno in comune molti aspetti (tra cui alterazioni di mediatori dell’infiammazione) e l’aumento di questa neurotrofina potrebbe essere alla base dell’effetto positivo che farmaci antidepressivi sembrano avere nella sclerosi multipla, come suggerito dai risultati di alcuni studi. “La nostra speranza è che i risultati ottenuti possano contribuire a sviluppare studi futuri mirati ad un eventuale riposizionamento di questi farmaci nella sclerosi multipla”.