Il cervello delle donne è più bravo a riconoscere il linguaggio del corpo. Anche senza vedere le espressioni facciali. Lo studio, pubblicato sulla rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience, intitolato “How face blurring affects body language processing of static gestures in women and men” (10.1093/scan/nsy033), potrebbe contribuire a spiegare la minore incidenza dell’autismo tra le donne (il rapporto con la popolazione maschile è di 1:4/5). I ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, coordinati da Alice Mado Proverbio, docente di Neuroscienze cognitive dei processi sociali ed affettivi, hanno analizzato come una codifica insufficiente del volto interferisca nella comprensione della gestualità e hanno dimostrato che le donne sono più resistenti alla mancanza di informazioni sul viso e comprendono meglio il linguaggio del corpo.

I ricercatori del Bicocca ERPlab hanno mostrato 800 fotografie ritraenti 6 diversi attori e attrici nell’atto di comunicare attraverso gesti simbolici familiari di vario tipo: deittici (l’indicazione di una direzione), iconici (il dito picchia sul polso opposto ad indicare che il tempo passa su un orologio immaginario) o emblematici (indice e medio formano una V a indicare ‘pace’). In metà delle foto l’espressione facciale dell’attore era stata oscurata (Foto 1).

Nascondendo le immagini delle informazioni facciali, i ricercatori hanno simulato la mancanza di input che si osserva in pazienti con disturbo dello spettro autistico (ASD), che tipicamente evitano di fissare gli occhi e di guardare in faccia le persone, probabilmente per evitare di sovreccitare l’amigdala (il centro della paura). L’esperimento consisteva nello stabilire se l’immagine mostrata era correttamente associata al significato del gesto (ad esempio “Brrr, che freddo!” nella foto n°1): metà delle volte non lo era (foto n°2).

 Al Fatebenefratelli all'Isola Tiberina e' operativo il nuovissimo acceleratore lineare per la Radioterapia "TrueBeam Varian", un macchinario di altissima precisione e velocita', che consentira' di ridurre notevolmente il tempo di esposizione alle radiazioni. Si passera' infatti dai 15-20 minuti attuali a 1 o 2, permettendo cosi' di effettuare anche trattamenti complessi in un massimo di 15 minuti contro i 30 attuali, migliorando drasticamente non solo il comfort del paziente, ma anche la sicurezza e l'accuratezza del trattamento. Insieme al macchinario "gemello", che arrivera' in Reparto ai primi di agosto, si potranno trattare a dovere e con estrema precisione oltre 80 pazienti al giorno, permettendo cosi' all'Unita' di Radioterapia del Fatebenefratelli all'Isola Tiberina di non avere liste di attesa e aprirsi alle necessita' di cura di tutto il Lazio. Inoltre, una navetta gratuita colleghera' a breve l'Ospedale con le stazioni FS e della Metro B di Piazzale Ostiense. Il nuovo acceleratore- appena giunto in Ospedale- e' il piu' completo fra tutti quelli presenti nelle altre strutture di Roma. Permettera' trattamenti di radiochirurgia, radioterapia guidata da immagini, trattamenti con controllo della respirazione. Grazie ad una Tac "on board" e' possibile verificare al millimetro la corretta posizione del paziente, visualizzare la neoplasia e colpire il bersaglio in maniera ancora piu' mirata, permettendo cosi' di preservare gli organi circostanti e di aumentare la percentuale di successo dei trattamenti.


Da un'indagine attuata negli ultimi cinque anni scolastici su 12.685 studenti emergono importanti limiti nelle conoscenze sulle modalita' di trasmissione del virus e di protezione individuale soprattutto negli istituti tecnici e nelle scuole professionali. Persiste, per quanto in calo (nei maschi dall'11 al 5.5% in cinque anni) una significativa percentuale di studenti che dichiarano di non aver mai sentito parlare di Hiv/Aids. Significativamente piu' a rischio di non disporre di alcuna informazione sono i ragazzi con uno o entrambi i genitori stranieri. Scuola e televisione, ma molto meno famiglia, internet o amici identificati come fonti di informazione. In incremento da un anno all'altro le conoscenze nelle scuole oggetto di interventi ripetuti, probabile effetto di un 'contagio positivo delle informazioni' attraverso un'educazione tra pari. In calo l'autostima, soprattutto tra le ragazze.

I LICEALI UN PO' MEGLIO, IN DIFFICOLTA' I FIGLI DI GENITORI STRANIERI

Un'indagine promossa dall'Associazione Nazionale per la Lotta contro l'Aids (Anlaids) ha permesso di analizzare 12685 questionari anonimi somministrati prima di un intervento formativo in 67 Istituti Scolastici pubblici in Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna (39% licei, 54% istituti tecnici, 7% istituti professionali), prevalentemente concentrati nelle aree metropolitane di Milano e di Roma. In 30 Istituti e' stato possibile disporre di dati riguardanti interventi effettuati consecutivamente sulle classi terze di anni successivi. L'eta' media dei ragazzi che hanno compilato il questionario era di 17 anni; 6473 (51%) erano di sesso femminile. I ragazzi che dichiaravano di non aver mai sentito parlare di Hiv/Aids prima dell'intervento in corso raggiungeva l'8% (l'11% nei maschi) nel 2013-2014, per poi scendere significativamente negli anni successivi (3,1% nelle femmine e 5,5% nei maschi nel 2017-2018). IGNORANZA, DISINFORMAZIONE, SCARSA COMUNICAZIONE NELLA SCUOLA MULTICULTURALE - Tra i fattori di rischio indipendentemente associati alla totale ignoranza del problema il sesso maschile, l'essere studenti di scuole professionali o di istituti tecnici rispetto ai liceali, avere uno o entrambi i genitori stranieri. "In una scuola che accoglie sempre piu' ragazzi provenienti da altre culture, anche gli interventi di prevenzione e di educazione alla salute devono tenere conto dei diversi percorsi individuali dei ragazzi- commenta il Professor Massimo Galli, Presidente Simit, che e' responsabile scientifico del Progetto Scuola di Anlaids fin dalla sua costituzione- Non deve poi stupire che il diradarsi degli interventi di prevenzione negli ultimi anni abbia generato sacche di totale non conoscenza del problema, specie nelle fasce piu' svantaggiate degli studenti. Va poi ricordato che l'indagine e' stata attuata prevalentemente in scuole di aree metropolitane e in cui spesso gli interventi formativi sono stati ripetuti per piu' anni consecutivi, facilitando la comunicazione tra pari. È quindi possibile che la totale ignoranza del problema tra i ragazzi sia fenomeno anche piu' diffuso di quanto emerga da questi dati". Come fonte di informazione su Hiv/Aids, la scuola viene citata dal 67,5% dei ragazzi. La televisione e' al secondo posto (62,7%), la famiglia solo al terzo (indicata solo dal 37%). Al quarto posto viene internet (34,8%), seguita dai giornali (22,1%). Gli amici sono solo all'ultimo posto (15,6%) con un trend decrescente nel tempo. Scuola ed internet vengono riconosciute come fonte d'informazione con un trend crescente nel tempo. Non cosi' la famiglia, che pero' e' considerata come fonte d'informazione piu' dalle femmine che dai maschi, mentre i maschi fanno riferimento ad amici, giornali e internet piu' delle femmine. "L'impressione- commenta il prof Galli- e' che i ragazzi considerino l'argomento come un tema scolastico, estraneo al loro vissuto e tale da meritare un approfondimento in internet o un confronto con gli amici solo per una minoranza. Il dato ribalta completamente i risultati ottenuti in un campione analogo in Milano negli anni tra il '98-'99 e il 2000-2001, in cui gli amici e in minor misura la famiglia occupavano i primi posti come fonti d'informazione e ambiti di confronto. La caduta di attenzione rispetto al problema emerge soprattutto sul dato riferito alla famiglia, che e' costante negli ultimi anni".


La scoperta di un team di etologi delle Università di Pisa e Parma e del CNRS francese pubblicata sulla rivista “Evolution and Human Behavior”


L’assistenza al parto, come evento sociale tutto al femminile, non è una caratteristica esclusiva degli umani come sinora ritenuto, ma un comportamento che condividiamo con i bonobo, una specie “cugina” molto vicina a noi dal punto di vista evolutivo. La scoperta arriva da una ricerca pubblicata sulla rivista americana “Evolution and Human Behavior” e condotta da Elisabetta Palagi dell’Università di Pisa, Elisa Demuru dell’Università di Parma e Pier Francesco Ferrari del CNRS francese.
Le studio etologico è stato realizzato presso il Parco Primati Apenheul nei Paesi Bassi e La Vallée des Singes in Francia dove i ricercatori sono riusciti a filmare tre nascite nel bonobo fin dalle prime fasi del travaglio, un’opportunità eccezionale che ha permesso di documentare non solo il comportamento della mamma, ma anche quello dell’intero gruppo sociale. Mai prima d’ora i comportamenti legati al parto in una grande scimmia erano stati descritti e analizzati in modo così dettagliato.
“Durante il parto di una loro compagna, le femmine di bonobo le si stringono intorno e mettono in atto comportamenti per proteggerla e supportarla in un momento di massima vulnerabilità, fino ad arrivare ad aiutare la partoriente a sorreggere il piccolo durante la fase espulsiva – spiega Elisabetta Palagi – Inoltre, gli scambi di espressioni facciali, vocalizzazioni e gesti raccontano una storia di intensa partecipazione emotiva che i ricercatori non hanno mai registrato in altre situazioni”.

 Nei due terzi dei casi la malattia esordisce durante l’infanzia, va trattata tempestivamente perché può portare allergie e asma. Al convegno anche il punto su melanomi e altri tumori della pelle. Piergiacomo Calzavara Pinton (Direttore dell'Unità di dermatologia agli Spedali civili di Brescia e presidente di Sidemast): "Nel 2017 in Italia sono stati circa 14.000 i nuovi casi di melanoma della cute"

La dermatite atopica è la più comune malattia infiammatoria della pelle. Colpisce il 15-20% dei bambini, dà prurito talvolta così intenso da impedire di studiare, dormire, concentrarsi. Solo un terzo di queste forme esordisce in età adulta, mentre i due terzi sono una scomoda ‘eredità’ dell’infanzia. Nel bambino va trattata subito perché bloccarla significa, in molti casi, evitare l’esordio di allergie e asma. Ma la novità è che anche molti adulti ne soffrono: una recente indagine internazionale che ha coinvolto anche l’Italia, evidenzia nel nostro paese un'incidenza di dermatite atopica fino all'8 % degli over 18. Lo rivela uno studio pubblicato di recente dalla rivista Allergy condotto da uno staff internazionale di specialisti, tra cui il Prof. Giampiero Girolomoni, Direttore Clinica Dermatologica dell’Università di Verona e co-presidente del 93° congresso nazionale della Sidemast che si terrà a Verona dal 23 al 26 maggio alla presenza di oltre 1.000 specialisti provenienti da tutta Italia. 

La ricerca è stata effettuata su un campione di 100.000 persone adulte residenti in Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Giappone. 
Il risultato è sorprendente. L’Italia è il paese dove si registra la maggior incidenza di dermatite atopica negli adulti: l’8,1% degli intervistati ammette di soffrirne, a fronte di una media del 4,9% emersa dalla totalità del campione. 
Ma sotto i riflettori del Congresso anche i tumori della pelle, in particolare il melanoma, in continuo aumento. In questo ambito appare sempre più evidente l’importanza della diagnosi precoce per identificarne la fase inziale di crescita e quindi limitare la possibilità di dare origine a metastasi. Durante il Congresso SIDeMaST si affronteranno tutte le novità riguardanti l’utilizzo di strumenti diagnostici all’avanguardia quali la dermatoscopia e la microscopia confocale. “Nel 2017 in Italia sono stati circa 14.000 i nuovi casi di melanoma della cute, 7.300 tra gli uomini e 6.700 tra le donne – spiega il prof. Piergiacomo Calzavara Pinton, Direttore dell'Unità di dermatologia agli Spedali civili di Brescia epresidente di Sidemast -.

 

 

 

Fondamentali i nuovi farmaci anti HCV

Lo scorso 8 marzo è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il protocollo che ha definitivamente introdotto la possibilità di trapiantare organi tra soggetti con infezione da HIV

 

HIV E MORTALITA’ - La disponibilità delle terapie antiretrovirali ha determinato un’importante diminuzione della mortalità per la malattia da HIV nelle persone con l’infezione. La morte delle persone con infezione da HIV è pertanto correlata ad altre patologie concomitanti: tra queste, l’insufficienza epatica dovuta a cirrosi o il cancro del fegato e l’insufficienza renale, le quali sono più frequenti nelle persone con HIV che nella popolazione generale. Lo scompenso cardiaco e l’insufficienza polmonare hanno una frequenza simile alla popolazione generale. Per questo motivo, all’inizio degli anni Duemila, sono stati avviati in molti paesi del mondo, tra cui l’Italia, programmi per il trapianto di fegato, rene, cuore e polmone nei pazienti con infezione da HIV.

I risultati di questi programmi sono stati sovrapponibili a quelli registrati nei pazienti senza infezione da HIV, in particolare nei trapianti di fegato; alla base di questo successo, la disponibilità dei nuovi farmaci anti HCV. È infatti adesso possibile eradicare l’epatite C a partire da otto settimane grazie alle nuove molecole. I nuovi farmaci sono già disponibili nei centri pubblici nelle diverse unità operative complesse degli ospedali, di infettivologia, epatologia e medicina interna. L’epatite cronica da virus C è una malattia che, in virtù della sua cronicità, provoca un processo che va spontaneamente avanti nel tempo fino a compromettere strutturalmente e funzionalmente il fegato. Si stima che in Italia ci siano circa 300.000 pazienti diagnosticati con Epatite C (HCV) e un numero imprecisato di persone inconsapevoli di aver contratto l’infezione, per un totale stimato che va oltre il milione di persone.L'implementazione dei farmaci anti HCV nel trattamento dei trapiantati ha incrementato la sopravvivenza dei soggetti con coinfezione Hiv Hcv bloccando la rapida progressione della recidiva di Hiv sul fegato trapiantato” aggiunge il dott. Puoti.

 

Sulla rivista internazionale “Human Vaccines and Immunotherapeutics”, l’analisi dell’Università di Pisa su 560 video pubblicati dal 2007 al 2017

In tema di vaccini e autismo, su YouTube domina la disinformazione. E’ questo quanto emerge da una recente analisi condotta all’Università di Pisa e pubblicata sulla rivista scientifica “Human Vaccines and Immunotherapeutics”. Lo studio coordinato dal professore Luigi Lopalco, direttore del centro interdipartimentale ProSIT, e dalla professoressa Annalaura Carducci, direttore dell’Osservatorio della Comunicazione Sanitaria (OCS), è stato condotto su 560 video caricati su YouTube dal 2007 al 2017 e relativi al collegamento tra vaccini e autismo o altri gravi effetti collaterali sui bambini.
In particolare, i ricercatori hanno evidenziato come il tono dell’informazione sul tema sia principalmente negativo e come l’informazione istituzionale sia praticamente assente su questo mezzo di informazione. Il tutto incrementato da una sorta di “effetto valanga” dovuto al fatto che il numero annuale di video caricati è aumentato durante il periodo considerato con un picco di 224 nei primi sette mesi del 2017. 
“A partire dal 2012 si è assistito in Italia ad un calo della fiducia nelle vaccinazioni che si è tradotto in una pericolosa diminuzione dei livelli di copertura vaccinale – sottolinea Lopalco – da questo punto di vista, la disinformazione diffusa ad arte su Internet sembra essere un fattore determinante considerato che moltissime persone usano il web come fonte di informazione e che nel 2016, ad esempio, il 42,8% dei cittadini italiani ha utilizzato internet per informarsi sui vaccini”.
Ma non è la prima volta che il gruppo di ricerca dell’Ateneo pisano si occupa del rapporto Intenet e vaccini. In un articolo pubblicato nel 2017 sulla rivista scientifica “Vaccine”, gli studiosi dell’Ateneo infatti avevano già osservato un legame fra il calo delle vaccinazioni contro morbillo, parotite e rosolia e, in quel caso, una notizia di cronaca diffusa attraverso siti web italiani di disinformazione antivaccinista a partire dal 2012.

 

“Tutte le epidemie di Ebola descritte fino ad ora sono state la conseguenza di un nuovo spillover (un nuovo ‘uscire’) del virus dalla foresta - sottolinea il Prof. Massimo Galli Presidente della Simit Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali - cioè di un nuovo passaggio da un animale serbatoio all’uomo. Il contenimento del nuovo focolaio può ora avvalersi della procedura di vaccinazione ‘ad anello’, che prevede la vaccinazione delle persone che sono state a contatto con una persona malata e che si è dimostrata efficace in Guinea nel 2015”

 

È di nuovo pericolo Ebola dopo meno di 5 anni. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha segnalato un focolaio di malattia da virus Ebola nella provincia dell’Equateur della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Al 16 maggio, sono già riportati sono 44 casi. L’epidemia ha avuto origine nell’area di Bikoro, in prossimità del lago Tumba, non lontano dal fiume Zaire e dal confine con la Repubblica del Congo (Congo Brazzaville). Otto casi sono stati segnalati anche nell’area di Iboko, ma a destare particolare preoccupazione sono i due casi diagnosticati in Mbandaka, una città di un milione e duecentomila abitanti che dista circa 80 Km dal focolaio iniziale.

“Il virus implicato in ogni epidemia è risultato sempre un po’ diverso da quello delle precedenti epidemie. Non esiste, quindi, un serbatoio di portatori umani dell’infezione: ogni focolaio, anche il peggiore di tutti, si è esaurito quando è stato possibile arrestare la diffusione interumana ed il ceppo virale implicato non è successivamente ricomparso come responsabile di infezioni umane” - precisa il Prof. Massimo Galli Presidente della SIMIT Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali dinanzi alla nuova ondata del virus. “Al contrario, il serbatoio animale è vasto, comprende probabilmente più specie di pipistrelli della frutta ed ancora mal definito”.

 L’ultima invenzione del Politecnico di Milano è un dispositivo biodegradabile, iniettabile nella camera posteriore dell’occhio, per il trattamento delle patologie retiniche, più precisamente della maculopatia. Si chiama Mag Shell ed è in grado di rilasciare precise dosi di farmaco ad intervalli di tempo predefiniti. Il nuovo dispositivo potrà sostituire le plurime iniezioni intravitreali di farmaci necessarie nel trattamento di patologie oftalmiche come l’edema maculare diabetico e la degenerazione maculare senile essudativa. Avere diverse dosi di farmaco pre-caricate per trattare queste patologie è ideale poiché eviterebbe di sottoporre il paziente a numerose iniezioni che, oltre ad essere fastidiose, sono un potenziale rischio di infezione. Mag Shell è costituito da strati o gusci di materiale biodegradabile alternati a dosi di farmaco.

Un team coordinato dall’Istituto di biologia e patologia molecolare del Cnr ha dimostrato che nelle piante la fertilità maschile è collegata a uno specifico messaggero del gene ARF8. L’indagine, pubblicata su Plant Cell, implica importanti ricadute in piante di interesse agrario di tipo ibrido che mostrano un maggior vigore rispetto a quelle prodotte per autofecondazione

 

L’immagine a sinistra mostra gli stami corti nel fiore della linea mutante arf8-7 che è difettiva del gene ARF8. L’immagine a destra mostra un ripristino della lunghezza degli stami nel fiore che esprime solo la variante di splicing ARF8.4.

 

La fertilità maschile in ambito vegetale dipende da un nuovo messaggero di un gene. Lo ha scoperto un team coordinato dall’Istituto di biologia e patologia molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibpm), unità di Roma, in collaborazione con l’Università di Kyoto e il Riken Institute di Yokohama, nell’ambito dei progetti bilaterali (Italia – Giappone) di grande rilevanza finanziati dal Ministero degli affari esteri e dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Lo studio, pubblicato sulla rivista Plant Cell, implica importanti potenziali ricadute in ambito agrario, poiché aiuterà la produzione di sementi ibride in specie coltivate, come riso, melanzana, pomodoro e molte altre.

“Sappiamo che la fertilità o capacità riproduttiva maschile delle piante è regolata dall’ormone auxina. La nostra indagine ha preso quindi in esame il fattore di trascrizione ARF8 (il gene Auxin Response Factor 8) che media gli effetti di questo ormone”, spiega Maura Cardarelli, primo ricercatore del Cnr-Ibpm. “L’obiettivo è stato capire come questo gene contribuisca alla fertilità maschile nelle piante in grado di autofecondarsi. Per questo motivo abbiamo lavorato su Arabidopsis, una specie spontanea presa comunemente a modello in quanto contiene sia gli organi fiorali maschili sia quelli femminili ed è quindi autogama, cioè si autofeconda. L’autofecondazione è una caratteristica negativa che va eliminata nelle piante coltivate. Infatti, la conseguenza è una maggiore consanguineità e le piante ‘prodotte’ per autofecondazione sono più deboli di quelle ibride, prodotte per incrocio tra due piante diverse. Per questo motivo in agricoltura vengono utilizzate sementi ibride e la loro produzione è favorita dalla ridotta fertilità maschile”.

 

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