Il cervello è un organo complesso e per questo affascinante. Parte di questa complessità risiede nella diversità delle cellule che lo compongono. Da diversi anni ormai si è capito che i neuroni non sono tutti uguali, ma presentano differenze che li fanno contribuire in modo diverso e specifico al funzionamento del sistema nervoso, e che li rendono più o meno vulnerabili durante l’invecchiamento o in caso di patologia. Non è ancora chiaro invece se e quanto le cellule gliali - oligodendrociti, astrociti e microglia, cioè le cellule non neuronali del sistema nervoso - siano eterogenee e quanto questo possa avere impatto sulla fisiologia o sulla patologia del sistema nervoso centrale (SNC).

 In un recente lavoro pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications, i ricercatori del NICO, Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi - Università di Torino Enrica Boda, Martina Lorenzati, Roberta Parolisi, Gianmarco Pallavicini, Ferdinando di Cunto, Annalisa Buffo (Dipartimento di Neuroscienze e NICO) e Luca Bonfanti (Dipartimento di Scienze Veterinarie e NICO), in collaborazione con il gruppo di ricerca della Dr.ssa Stephanie Bielas (University of Michigan, USA) e con il Dr. Brian Harding (University of Pennsylvania and Children’s Hospital of Philadelphia, USA), hanno cercato di rispondere a questa domanda concentrandosi sui progenitori degli oligodendrociti, anche detti OPC.

 

Lo studio, pubblicato su Journal of Neuroscience, e coordinato dall’Università degli Studi di Milano, rivela come una variazione genetica fissata dalla selezione naturale nel cervello dei primati superiori possa concorrere all’insorgenza di patologie neuropsichiatriche.
La medicina evoluzionistica è un approccio della ricerca biomedica che ha l’ambizione di contribuire alla comprensione del percorso evolutivo che ha portato gli esseri umani al loro stato attuale. Questo tipo di studio si rivela un prezioso strumento per la comprensione dell’evoluzione delle funzioni più complesse del cervello umano, come le emozioni, il linguaggio e la creatività, ma anche dei meccanismi alla base di alcune malattie specifiche del cervello umano. E’ questo approccio che ha guidato la ricerca condotta dal gruppo di Elena Battaglioli e Francesco Rusconi, del dipartimento di Biotecnologie mediche e medicina traslazionale dell’Università Statale di Milano, svolta principalmente da Chiara Forastieri con la collaborazione di Beatrice Bodega e Valeria Ranzani.

Il Centro Cardiologico Monzino e l’Università degli Studi di Milano hanno spiegato per la prima volta la correlazione tra emicrania e un difetto cardiaco congenito, il Forame Ovale Pervio.
Lo studio pubblicato oggi su Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science (JACC BTS).

Uno studio del Centro Cardiologico Monzino e Università Statale di Milano, pubblicato oggi sul prestigioso Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science (JACC BTS), spiega per la prima volta il meccanismo fisiopatologico che correla l’emicrania con aura al difetto cardiaco congenito del Forame Ovale Pervio (PFO) - comunemente chiamato “buco nel cuore”- cioè la mancata chiusura totale alla nascita della comunicazione tra atrio destro e sinistro del cuore. Lo studio conferma inoltre i dati già noti di regressione delle crisi emicraniche in circa il 70% dei casi a seguito dell’intervento percutaneo di chiusura del forame ovale.
Infatti, diversi studi osservazionali avevano già evidenziato una relazione fra emicrania con aura e PFO, segnalando che circa il 35% dei soggetti affetti da PFO soffre di emicrania con aura (per il 70% sono donne) e che in questi pazienti gli attacchi di emicrania spariscono o si riducono in modo significativo dopo la procedura interventistica di chiusura del forame. Tuttavia non è mai stato chiarito il meccanismo che lega PFO e sintomo emicrania con aura.



Un nuovo studio Sapienza, realizzato con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT) e altri centri di ricerca internazionali, ha valutato la possibilità di predirre con metodi di apprendimento automatico le varianti genetiche associate a un alto rischio di malattia. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Alzheimer's & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring
L’Alzheimer fa parte di quelle malattie genetiche causate da mutazioni a livello di un singolo gene, ovvero in cui una variante a livello di singolo nucleotide (SNV Single-Nucleotide Variants) è sufficiente per causare la patologia genetica. Ad oggi si conoscono il gene e la mutazione coinvolti nell’insorgenza di solo la metà di queste malattie.

Diversi studi di larga scala (chiamati in inglese GWAS, Genome-wide association studies) hanno portato alla luce informazioni su singole varianti associate alla propensione di un paziente di contrarre l’Alzheimer, ma gli SNV non posso essere utilizzati efficacemente a scopo predittivo senza considerare le relazioni fra di essi e i potenziali rapporti con altri elementi del genoma.

Basti pensare che molti soggetti con una determinata variante genica associata all’Alzheimer (come per esempio la mutazione nel gene APOE), non sviluppano la patologia.


Un nuovo studio firmato dalla Sapienza ha scoperto che il coinvolgimento di aree diverse del cervello nella memorizzazione, alla base del ricordo, è legato alla distribuzione nel tempo dell’apprendimento. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista PNAS
L’apprendimento migliora se un’esperienza viene distribuita nel tempo piuttosto che essere concentrata in un’unica soluzione. Questo vale nello studio, ma anche nell’ambito della pubblicità e di tanti altri aspetti della vita quotidiana.

Un team di ricerca della Sapienza ha svelato per la prima volta che la maggiore efficienza di un apprendimento ripartito nel tempo dipende dal fatto che il cervello utilizza circuiti cerebrali diversi a seconda della modalità di apprendimento, indipendentemente da ciò che deve essere appreso. Inoltre, i ricercatori hanno dimostrato che la stimolazione artificiale dei circuiti responsabili dell’apprendimento distribuito nel tempo si traduce in un miglioramento della memoria.

 

L’intelligenza artificiale è impiegata in diverse applicazioni come l’interpretazione del parlato, il riconoscimento di immagini e la diagnostica medica. È stato anche dimostrato che, tramite le tecnologie quantistiche, si può avere un potere di calcolo superiore a quello dei maggiori supercalcolatori. Alcuni fisici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), del Politecnico di Milano e dell’Università di Vienna, hanno messo a punto un dispositivo, chiamato quantum memristor, che potrebbe permettere di combinare l’intelligenza artificiale e il calcolo quantistico, schiudendo potenzialità senza precedenti. L’esperimento è stato realizzato in un processore quantistico integrato, funzionante con singoli fotoni. Il lavoro è pubblicato su Nature Photonics e ha ricevuto la copertina del numero di aprile della rivista
Gli algoritmi di intelligenza artificiale si basano su modelli matematici chiamati reti neurali, ispirati alla struttura biologica del cervello umano, che si compone di nodi interconnessi (i neuroni).

Così come nel nostro cervello il processo di apprendimento è basato sul riarrangiamento delle connessioni tra i neuroni, le reti neurali artificiali possono essere “allenate” su un insieme di dati noti che ne modificano la struttura interna, rendendola capace di svolgere compiti “umani” quali il riconoscimento di un volto, l’interpretazione di immagini mediche per diagnosticare malattie e persino la guida di un’automobile. Per questo, sono in corso attività di ricerca, a livello accademico e industriale, volte a ottenere dispositivi integrati e compatti capaci di svolgere le operazioni matematiche richieste per il funzionamento delle reti neurali in modo rapido ed efficiente.

 

I glucocorticoidi, una classe di ormoni steroidei, giocano un ruolo fondamentale nell’alterare le funzioni cerebrali e rafforzare il bisogno compulsivo di queste sostanze. Ma la somministrazione di mifepristone – uno steroide sintetico antagonista – è in grado di contrastarne gli effetti Bologna, 4 aprile 2022 - In uno studio pubblicato su Molecular Psychiatry, rivista del gruppo Nature, un gruppo di ricerca internazionale ha indagato le origini neurobiologiche alla base dei comportamenti ossessivi e degli stati emotivi alterati che colpiscono chi è affetto da dipendenza da oppioidi. La nuova ricerca ha permesso di dimostrare che a giocare un ruolo fondamentale in questo senso sono i geni responsabili della sintesi di una classe di ormoni steroidei noti come “glucocorticoidi”. A partire da questo elemento, i ricercatori hanno inoltre messo in evidenza che la somministrazione di “mifepristone”, uno steroide sintetico, può essere utile per ridurre gli effetti della dipendenza.

 

La ricerca riguarda il tessuto adiposo bruno, che svolge una funzione anti-diabetica e termogenica, “bruciando” grassi, e che è poco attivo in individui obesi e/o affetti da diabete di tipo 2. Lo studio internazionale è coordinato da ricercatori dell’Università di Roma “Tor Vergata”, in collaborazione con colleghi del Consiglio nazionale delle ricerche, e pubblicato oggi su Cell Metabolism (Issue 4, Volume 34)

 

Il “tessuto adiposo bruno” è presente in grande quantità nel neonato, dove ha un ruolo essenziale nel mantenimento della temperatura corporea. È ricco infatti di “mitocondri”, organelli responsabili della produzione di calore, che viene generato attraverso l’azione di una proteina specializzata chiamata “termogenina”. Tale tessuto perde le sue caratteristiche con l’età, pur mantenendo una residua attività termogenica, che rimane molto importante nel preservare la salute metabolica. Per funzionare, infatti, il tessuto adiposo bruno utilizza le riserve di grassi immagazzinati all’interno degli adipociti o cellule adipose brune, il glucosio e altri lipidi che provengono dal flusso sanguigno, “bruciandoli” all’interno dei mitocondri per produrre calore. La sua attività porta quindi ad una dissipazione energetica e all’abbassamento dei livelli di glucosio e grassi nel sangue.


Uno studio italiano, a cui partecipano i ricercatori della Sapienza, ha valutato l’impatto dei livelli di testosterone e di estradiolo sull’attivazione delle piastrine del sangue, processo direttamente collegato al rischio di eventi coronarici acuti. I risultati del lavoro, condotto su un campione di oltre 400 pazienti di entrambi i sessi, sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Endocrinological Investigation
La prevenzione della cardiopatia ischemica, patologia a carico delle arterie coronariche che portano sangue al cuore, ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni, permettendo una notevole riduzione dei tassi di eventi acuti, che vanno dall’infarto alla morte. Tuttavia, l’incidenza mondiale di cardiopatia ischemica è ancora molto elevata.

La malattia colpisce entrambi i sessi, ma spesso con una fisiopatologia, sintomatologia e risposta alle terapie molto diversa: per tale ragione gli attributi biologici sono stati rivendicati come i principali fattori di queste differenze, canalizzando l’attenzione sul possibile ruolo degli ormoni sessuali.

 

Scoperto un nuovo possibile meccanismo per interferire con i coronavirus umani. È il risultato di uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Antiviral Research. Coordinati dal Professor Marco De Andrea, CEO anche dello spin-off NoToVir, la Dr.ssa Selina Pasquero e gli altri ricercatori del laboratorio di Patogenesi delle Infezioni Virali, Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino, hanno scoperto un nuovo meccanismo associato alla replicazione di SARS-CoV-2 che apre nuove possibilità allo sviluppo di farmaci antivirali.

 L’infezione virale

 Una delle strategie escogitate dai virus per favorirne la replicazione nelle cellule consiste nel modificare le proteine cellulari dell'ospite, alterando così la loro localizzazione e la loro attività funzionale. Una di queste modifiche, nota per essere associata a malattie di tipo degenerativo, è la citrullinazione. Il processo di citrullinazione è stato descritto, e oggi utilizzato anche a scopo diagnostico, in diverse condizioni infiammatorie, come l'artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, il morbo di Alzheimer, la sclerosi multipla, l’aterosclerosi e in diverse forme di cancro. In uno studio pubblicato lo scorso anno, il gruppo del Prof. De Andrea aveva per la prima volta correlato la citrullinazione con le infezioni di virus erpetici a DNA.

 

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