“Il bersaglio mobile” di Placido

Le gutteur-il cecchino di Michele Placido – FC al Festival del Cinema di Roma 2012

A sette anni dal fortunato Romanzo criminale, Michele Placido si cimenta con lo stesso soggetto per realizzare un polar transalpino. Fuori Concorso al Festival di Roma 2012, il regista pugliese, con Le gutteur, si conferma capace nell’uso sapiente del linguaggio del genere gangster. L’esercizio di stile dell’autore è innegabile, come la capacità di padroneggiare i codici del genere in questione.

Se Vallanzasca e Romanzo criminale erano "romanzi" molto connotati in senso melodrammatico, dal chiaro tributo stilistico pagato a Scorsese – che a sua volta si rifà ideologicamente al Nostro melodramma, come Coppola, del resto - Il cecchino sposa in tutto la tradizione francese. Mentre i due lavori precedenti risentivano di una memoria puramente italiana, che attinge all’opera lirica e alla commedia dell'arte, il film in oggetto, invece, presenta una cifra stilistica ben calata nel polar francese; si libera, dunque, di ogni componente romantica, senza concedere indulgenze neppure al privato dei personaggi. 

Grossi calibri del cinema francofono, gli interpreti: Daniel Auteuil, Olivier Gourmet, Mathieu Kassovitz, Fanny Ardant in un cameo (poco verosimile). Il commissario di polizia interpretato da Auteuil, però, è tra tutti il più convincente. La sua psicologia è la più approfondita; man mano che scorre il film, si chiariscono le vere ragioni alla guida delle sue azioni, sin dall'inizio un po’ fuori dagli schemi. Esse affondano le radici in un dolore, alla base della fragilità di un personaggio apparentemente irreprensibile, come può essere la perdita prematura di un figlio, in circostanze militari non del tutto chiarite.

Kassovitz, di contro, nei panni del cecchino, è il deuteragonista: egli è il classico nemico del poliziotto. I due si lanciano in una sfida al di là del bene e del male, che trascende i ruoli, fino a diventare personale, riecheggiando il rapporto fra De Niro e Al Pacino in "Heat - La sfida" di Michael Mann.

Con circa 15 milioni di euro tra le mani, budget oggettivamente improponibile per le Nostre tasche, Placido è volato a Parigi, per regalarci un sentito omaggio al film di genere. Le scene d'azione sono girate in maniera adrenalinica, con un montaggio serrato, in cui confluiscono armonicamente tanto le panoramiche sui tetti quanto i primissimi piani sui volti concitati e il crudo soffermarsi sul sangue e il sudore dei buoni e dei cattivi.

Siamo a Parigi. Un’implacabile banda di rapinatori sta per assaltare l’ennesima banca della propria carriera criminale. Il capitano Mattei-Auteil è sulle loro tracce. Li ha praticamente in pugno, quando dal tetto di un edificio piovono pallottole. E’ un cecchino, un formidabile cecchino, che sta uccidendo uno ad uno tutti gli uomini sul posto. La caccia all’occhio di falco parte immediatamente, mentre emergono nuovi inattesi particolari sul passato dei rapinatori e su quello dello stesso Mattei. Circondati dalle autorità, i criminali rispondono all’istinto primordiale della sopravvivenza. I membri del branco, così, diventano “homo hominis lupus” – Hobbes docet – e le carte si mescolano al punto che nessuno può più fidarsi dei vecchi alleati.

Sullo sfondo di questo plot, a volte un po’ farraginoso, in realtà, Placido inserisce un sotto testo latente, ma efficace: il tema dei reduci militari dell’Afghanistan. La fotografia di Arnaldo Catinari, cupa, fredda, tagliente, che esplora tutta la gamma cromatica dei blu, fa piombare il centro di Parigi in un’originale atmosfera londinese dai colori plumbei, mostrando una “ville lumière” malinconica, a cui si contrappone la natura selvaggia e impenetrabile delle scene nei boschi di periferia, quale probabile metafora della vita dei protagonisti.

Il regista pugliese si dichiara soddisfatto del suo lavoro d’oltralpe e noi siamo con lui. Egli esprime anche il desiderio di fare un film sulla società e la politica italiana in tutta libertà, come avviene ad esempio negli Stati Uniti. Lamenta, dunque, una mancanza di libertà di scelte nel cinema italiano che, pur essendo supportato da ottimi talenti, è vittima, purtroppo, di una sorta di “anemia” causata da cotanto irrigidimento e dalla scarsità di mezzi concessi alla realizzazione dei progetti (validi, aggiungiamo, preferendo stanziarne per altri che puzzano di favoritismi e probabili mazzette). Insomma i produttori non osano più rischiare, tradendo la natura stessa del loro lavoro….ma come si dice: “ha da passà ‘a nuttata”….

 

Margherita Lamesta

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