Un team congiunto dell’Istituto di biofisica del Cnr e della Scuola Normale Superiore ha indagato le primissime fasi dello sviluppo cerebrale e analizzato, in particolare, i complessi processi molecolari che portano alla formazione delle  distinte regioni cerebrali cognitive, ognuna deputata a una specifica funzione. Lo studio è pubblicato sulla rivista Stem Cell Reports

Comprendere i processi attraverso i quali si formano, all’interno del cervello, le varie regioni cognitive è una sfida fondamentale nelle neuroscienze: il tema è al centro di uno studio condotto dall’Istituto di biofisica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibf) di Pisa e dalla Scuola Normale Superiore con il supporto del Center for Human Technologies dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova: sono stati indagati i meccanismi molecolari e cellulari che portano alla formazione delle onde di attività  delle  delle distinte aree cognitive dell’encefalo durante lo sviluppo embrionale.


L’osservatorio Solaris è un innovativo progetto scientifico e tecnologico - frutto di una collaborazione tra diverse istituzioni scientifiche nazionali coordinate dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dall’Università degli Studi di Milano e dall’Università di Milano-Bicocca nell’ambito del PNRA (Piano Nazionale di Ricerca in Antartide) - finalizzato allo sviluppo di un sistema di monitoraggio continuo del Sole alle alte frequenze radio, per studi di fisica fondamentale, climatologia spaziale e interazioni Terra-Sole.

Nonostante sia attivo da pochissimo tempo e ancora nelle fasi iniziali di sviluppo (è infatti passato poco più di un anno dalla sua costituzione), Solaris ha già prodotto dati interessanti dal punto di vista scientifico per applicazioni di climatologia spaziale, in particolare mappe solari che consentono di studiare in banda radio a 95 gigahertz l'evoluzione della regione attiva che ha prodotto le tempeste solari responsabili dell’aurora di capodanno, visibile anche alle nostre latitudini. Le immagini sono state ottenute nelle scorse settimane, e sono tuttora in fase di analisi e interpretazione da parte di un team multidisciplinare di esperti [scarica le immagini].


Team di ricerca guidato da Padova effettua per la prima volta studio su astronauti in missione e scopre cosa accade al rientro sulla Terra: calo della dopamina, aumento dei livelli di cortisolo e stress sistemico Navigare nello spazio non è più un privilegio riservato ad astronauti professionisti. Questo nuovo tipo di viaggio o di esplorazione si sta espandendo sempre di più ai civili. Questi ultimi però potrebbero giungere alla missione nello spazio senza aver ricevuto un minimum di training o acclimatazione ad ambienti estremi, come lo spazio stesso richiederebbe. Questa diffusione di “space flight” pone allora nuovi importanti interrogativi e cioè quali possano essere le risposte biologiche nell’organismo dei navigatori dello spazio, siano essi ben addestrati o, soprattutto, astronauti dell’ultima ora. Non che studi sperimentali siano mancati negli ultimi decenni atti ad investigare, ad esempio, quali modificazioni possano essere impartite dalla microgravita’ sugli ormoni, il sistema immunitario, la risposta infiammatoria e comportamentale dei soggetti che compiano missioni nello spazio. La maggior parte di queste ricerche, però, è stata condotta ricorrendo a simulazioni a terra o a riproduzioni di viaggi spaziali in laboratorio usando modelli sperimentali.

 La vela con il sistema di trasmissione, composto da emettitori in fase tra loro (grating coupler)


Team di ricerca dell’Università di Padova mette a punto sistema per comunicazioni interstellari.
Siamo davvero soli nell’universo? Ci sono tracce di civiltà passate o precursori dello sviluppo della vita? L’uomo si è posto da sempre queste domande.
La ricerca scientifica ne cerca le risposte in diverse direzioni. Da un lato con l’osservazione dalla terra o da satelliti intorno al nostro pianeta alla ricerca dei pianeti dove si può sviluppare la vita, chiamati extrasolari; negli ultimi vent’anni ne sono stati individuati migliaia, intorno a stelle a diverse distanze da noi. Una seconda linea riguarda l’ascolto dei segnali provenienti dal cosmo, sia radio che luminosi, alla ricerca di possibili “firme” che attestino un trasmettitore artificiale. La terza linea, molto più ambiziosa è quella di visitare questi “candidati”, fare delle osservazioni delle misure e comunicarle a casa.
Team di ricerca dell’Università di Padova coordinato dal prof Paolo Villoresi, del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Ateneo, ha recentemente pubblicato nella rivista «Physical Review Research», dell’American Physical Society, uno studio dove si propone un sistema di comunicazione che una sonda lanciata dalla terra può utilizzare per trasmettere le osservazioni svolte durante il passaggio intorno all’eso-pianeta Proxima Centauri B.


È uno dei più grandi buchi neri supermassicci non attivi mai osservati nell’universo primordiale e il primo individuato durante l’epoca della reionizzazione. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, è stata possibile grazie alle rilevazioni del telescopio spaziale James Webb. Allo studio hanno partecipato anche INAF, Scuola Normale Superiore di Pisa e Sapienza Università di Roma
Anche i buchi neri schiacciano un sonnellino tra una mangiata e l’altra. Un team internazionale di scienziati, guidato dall’Università di Cambridge, ha scoperto un antichissimo buco nero supermassiccio “dormiente” in una galassia compatta, relativamente quiescente e che vediamo come era quasi 13 miliardi di anni fa. Il buco nero, descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, ha una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole e risale a meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang, rendendolo uno degli oggetti più antichi e massicci mai rilevati.


Grazie a quasi 5 anni di osservazioni con il radiotelescopio sudafricano MeerKAT, un gruppo di ricerca guidato dalla collaborazione MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA) ha trovato ulteriori conferme all’ipotesi dell’esistenza di un fondo cosmico di onde gravitazionali aventi frequenze estremamente basse (1-10 nanoHertz), ottenendo la mappa finora più dettagliata della distribuzione di queste onde gravitazionali nell’Universo. Il segnale potrebbe provenire da una popolazione di coppie di buchi neri supermassicci spiraleggianti. Gli esiti di questo sforzo internazionale, che ha visto coinvolti anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Milano-Bicocca, hann prodotto tre studi pubblicati oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.


Il Consiglio nazionale delle ricerche ha contribuito, con l’Istituto per i processi chimico-fisici di Messina, alla ricerca internazionale coordinata dall’Ecole Polytechnique Federale di Losanna che ha per la prima volta osservato in maniera diretta - tramite il metodo della spettroscopia vibrazionale correlata - le molecole che partecipano ai legami a idrogeno nell'acqua liquida, misurando gli effetti quantistici elettronici e nucleari che in precedenza erano accessibili solo tramite simulazioni al calcolatore. Lo studio, al quale hanno partecipato anche l’ICTP di Trieste, l’Ecole Normale Superieure di Parigi e la Queen’s University di Belfast sperimentale e computazionale sono stati pubblicati su Science.


Pubblicato su Nature Chemistry lo studio che risponde a una delle domande più affascinanti della chimica: quanto tempo impiega un elettrone per dare inizio al trasferimento di carica nelle molecole?
Un team internazionale composto da ricercatori del Politecnico di Milano, del Consiglio Nazionale delle Ricerche con l’Istituto di fotonica e nanotecnologie (Cnr-Ifn) e l’Istituto di struttura della materia (Cnr-Ism), dell’Universidad Autónoma de Madrid, dell’Universidad Complutense de Madrid e del Sincrotrone di Trieste, ha catturato i primi istanti del trasferimento di carica in una molecola dopo l’interazione con impulsi ad attosecondi.




Su Nature Astronomy un nuovo studio pone nuova luce sulla comprensione di Cygnus X-3.


I membri del team di IXPE del Dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università Roma Tre nel gruppo di ricerca internazionale
È stato pubblicato  su Nature Astronomy un importante studio che pone nuova luce sulla comprensione di Cygnus X-3, una delle sorgenti binarie a raggi X più brillanti del cielo. Lo studio, coordinato da Alexandra Veledina, ricercatrice dell’Università finlandese di Turku, è frutto della collaborazione di un team internazionale di ricercatori di diversi istituti di ricerca e università. Tra questi anche gli astrofisici Stefano Bianchi, Giorgio Matt e Francesco Ursini, membri del team di IXPE del Dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università degli Studi Roma Tre.
Le Binarie X sono sistemi affascinanti composti da due corpi celesti: una stella normale e un oggetto compatto come un buco nero o una stella di neutroni, che acquisisce materiale dalla sua compagna stellare. Finora sono state identificate alcune centinaia di queste sorgenti nella nostra Galassia.

 

A sinistra, l'interno del JET. A destra, rappresentazione schematica della reazione di fusione deuterio-trizio

 


Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto per la scienza e tecnologia dei plasmi del Cnr di Milano ha dimostrato che i raggi gamma prodotti nella reazione nucleare deuterio-trizio possono fornire un metodo di misura accurato e alternativo della potenza raggiunta nei nuovi reattori a fusione. Lo studio è oggetto di due articoli scientifici pubblicati su Physical Review C e Physical Review Letters

Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto per la scienza e tecnologia dei plasmi del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano (Cnr-Istp) fornisce un importante contributo nel risolvere una delle più grandi “sfide” legate all’utilizzo dell’energia nucleare: misurare la potenza raggiunta nei nuovi reattori a fusione basati sulla reazione deuterio-trizio.

 

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