Neanche la data sembra casuale. Siamo esattamente 150 anni dopo la pubblicazione del libro fondativo della moderna teoria dell’evoluzione. Ci riferiamo ovviamente all'Origine delle Specie: il volume del 1859, nel quale Charles Darwin aveva anche fatto una promessa, contenuta nella penultima pagina della prima edizione: “...luce si farà sull’origine dell’uomo e la sua storia...”. Se davvero "luce", "molta luce" è stata fatta da allora, quest’’ultimo scheletro è qualcosa di più di una lampadina, di una semplice tessera del mosaico, di un singolo anello.
Forse è proprio l’anello fondamentale.
Si tratta del tanto atteso “anello mancante” di ottocentesca memoria...?
Per la verità, molti miei colleghi sono critici – e non hanno tutti i torti – sull’espressione e sul concetto di anello mancante. L’evoluzione umana non è certo stata una catena, fatta di anelli che si susseguono uno all’altro. Proprio le formidabili scoperte paleoantropologiche dei 150 anni che sono trascorsi dalla predizione di Darwin ci hanno insegnato che il percorso che ha portato alla comparsa della nostra specie non è stata una sequenza lineare. Siamo molto lontani dalla pur consueta rappresentazione di scimmie, scimmioni e ominidi sempre più umani che si susseguono come in una fila ordinata. Al contrario, oggi sappiamo che la storia evolutiva che ci ha preceduto è stata piuttosto una genealogia ramificata e non una sequenza lineare. Si tratta dunque di un albero – e assai frondoso (alcuni dicono un “cespuglio”), per la verità – dove le numerose specie di nostri predecessori si sono spesso accavallate e affiancate l’una all’altra, protagoniste di storie e destini assai differenti: le cosiddette australopitecine, poi i parantropi e le tante varietà del genere Homo. Tutte estinte tranne una, la nostra: Homo sapiens.
Ma con il nuovo scheletro del Middle Awash – subito dotato, come si usa, di un soprannome che ce lo rende un po' meno... scheletrico: "Ardi" – siamo in un’altra dimensione. Siamo prima.
Siamo cioè alle radici del nostro albero genealogico. Siamo al punto di contatto con la diramazione fondamentale che, da un lato, ha portato all’evoluzione delle attuali scimmie antropomorfe africane e, dall’altro, ha intrapreso l’intricata traiettoria che arriva fino a noi. In questo senso, solo in questo senso, il nuovo scheletro sembra rappresentare davvero l’anello mancante. Non l’anello in una catena di antenati, ma quel raccordo che ancora mancava fra noi esseri umani e i parenti più prossimi che abbiamo fra i primati viventi. Questo fossile può dirci molto su ciò che siamo oggi e su come lo siamo diventati, dal momento che ci siamo distaccati dagli scimpanzé, che tuttora sopravvivono nelle foreste dell’Africa equatoriale e che con noi condividono più del 98% del patrimonio genetico.
E’ per questo che Ardi, il nuovo ominide, è importante. Lo è anche perché di resti fossili così completi non se ne trovano facilmente. Per incontrare qualcosa di paragonabile, un milione d’anni dopo, dobbiamo fare riferimento al più celebrato fra gli ominidi: l’australopitecina scoperta nell’ormai lontano 1974 e soprannominata Lucy, a sua volta quasi contemporanea alle impronte lasciate da alcuni individui bipedi, e di certo non ancora umani, sulle ceneri vulcaniche di un sito in Tanzania. E’ importante anche perché uno scheletro completo ci mette di fronte a un mosaico di caratteri anatomici che, solo nel loro insieme, fanno la differenza.
Guardiamolo un attimo questo scheletro.
Molto sembrerebbe indicarci che siamo di fronte a una scimmia: il cranio neurale piccolo rispetto alla faccia, le lunghe braccia robuste, le grandi mani con le falangi ricurve, le gambe corte e i piedi con l’alluce divaricato. Se avessimo trovato solo questi elementi, o parte di essi (come spesso capita), penseremmo di avere semplicemente scoperto una scimmia antropomorfa estinta.
Ma analizzando bene i denti, sopratutto nei dettagli, si scopre che hanno caratteristiche intermedie tra uno scimpanzé e un australopiteco. Sono cioè indirizzati verso la linea evolutiva dell'uomo...?
Ma soprattutto, esaminiamo attentamente le ossa del cinto pelvico e la postura corporea che ne consegue. Se facciamo questo passo ulteriore e ci lasciamo guidare dalle sapienti ricostruzioni 3D elaborate al computer da White e colleghi, possiamo allora convincerci di essere di fronte al più antico e più arcaico degli ominidi: si tratta infatti di un primordiale essere bipede, dotato di una postura e di un modello di locomozione non esattamente come il nostro, e nemmeno come quello di Lucy e delle altre australopitecine, ma comunque quello di un ominide bipede. Il più antico e più arcaico ominide bipede. Scusate se è poco!
Che dire poi del contesto paleo-ecologico? Gli studi interdisciplinari che compaiono all'interno del fascicolo di Science mostrano con chiarezza e con dovizia di particolari che questi primissimi rappresentanti della nostra ramificata storia evolutiva vivevano ancora in foresta, ben prima della progressiva conquista delle boscaglie più aperte da parte di australopitecine come Lucy e, in seguito, delle grandi distese di savana da parte dei successivi loro discendenti, parantropi o forme umane arcaiche che siano stati.
D’altra parte, il nome in latino del nuovo fossile – Ardipithecus ramidus, attribuito ai primi frammentari reperti del 1994 – già diceva molto. Deriva da due parole della lingua degli Afar (la gente del Middle Awash, lì in Etiopia) che rispettivamente significano "terreno" (ardi) e "radice" (ramid). Pensiamo allora a una scimmia antropomorfa, che ormai si muove agevolmente sul terreno e che si trova alle radici del nostro albero genealogico.
Ne sentiremo parlare ancora a lungo...
Giorgio Manzi
Insegna Paleoantropologia ed Ecologia umana alla SAPIENZA, dove è direttore del Museo “G. Sergi”. Noto anche come divulgatore scientifico, negli ultimi anni ha pubblicato alcune opere di saggistica note al grande pubblico: Homo sapiens (2006), L’evoluzione umana (2007), Uomini e ambienti (2009).