Il danno biologico terminale e il danno tanatologico

L'articolo 2043 del codice civile stabilisce che qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un fatto ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Per danno ingiusto si intende un danno ad un diritto primario ed assoluto, come il diritto alla salute (articolo 32 Costituzione). Il danno provocato all'integrità psico-fisica di un soggetto è chiamato "danno biologico" o "danno alla salute".

Secondo i principi medico-legali a qualsiasi lesione dell'integrità fisica consegue un periodo di invalidità temporanea e, talvolta, permanente. Quest'ultimo tipo di inabilità insorge quando il soggetto leso non riacquista le sue capacità completamente, sebbene la malattia abbia compiuto il suo corso. Sia che gli effetti siano temporanei, sia che siano permanenti, in ogni modo, il presupposto è che l'organismo sia sempre vivente e che lo stesso abbia recuperato nuovamente un suo equilibrio, pur se alterato.

In entrambi i casi, inoltre, il soggetto compromesso può essere risarcito del danno arrecato alla sua integrità psico-fisica. 

Particolare è l'evoluzione che la valutazione di quest'ultimo ha subito negli anni. In passato, il risarcimento del danno veniva identificato nella perdita economica derivante al soggetto leso dalla modificazione peggiorativa della sua capacità lavorativa. Il guadagno perduto, pertanto, era il criterio in base al quale si liquidava il danno. Le conseguenze come è chiaro erano fin troppo inique, chi guadagnava era risarcito, viceversa, per chi non produceva reddito. 

Si è adottato allora un altro metodo, il c.d. "sistema tabellare"; si calcola il risarcimento in base ai gradi , predefiniti in tabelle, di invalidità. Recenti orientamenti hanno, poi, stabilito che la liquidazione tabellare del danno deve essere sempre fondata sul potere di liquidazione equitativa del giudice. Ciò significa che lo stesso deve procedere ad una c.d. "personalizzazione del danno", vale a dire che le tabelle devono essere non attuate automaticamente, ma adeguate al caso concreto. Ogni situazione, infatti, ha una sua individualità che l'automatismo delle tabelle non può coprire.

Poiché le lesioni di cui si parla, ripeto, lasciano in vita il soggetto, ci si chiede "se" e "come" viene calcolato il danno biologico quando conseguenza delle stesse sia la morte e se il decesso può essere considerata la massima lesione alla vita.

Partiamo da quest'ultima domanda. Bisogna individuare, prima di ogni altra cosa, l'ambito in cui collocare l'evento morte. Di questo se ne è occupata una recente giurisprudenza (Cass.n.7632/2003) che ha ribadito un concetto in linea con un consolidato orientamento. La Stessa ha confermato che la morte non è la massima lesione della salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita. 

La perdita di quest'ultima non rientra nel danno biologico risarcibile. Si parla, infatti, di "danno tanatologico". La protezione del bene vita , però, non ha difesa nel sistema privatistico, ma è preservata unicamente con una sanzione penale (con la massima sanzione, cioè). Questo è spiegato dal fatto che il risarcimento del danno ha una funzione precisa, cioè quella di reintegrare e di riparare i pregiudizi e non ha, viceversa, uno scopo sanzionatorio. Più precisamente, se il bene vita è il bene in assoluto connesso strettamente e inscindibilmente alla persona, non si può reintegrare o riparare se il soggetto ha cessato di vivere. Il motivo sta nel fatto che finché la vittima è in vita, questa può essere titolare di diritti, quando però muore non può più esserlo, né può comunque essere in grado di acquistarne uno, neanche quindi di ottenere il diritto al risarcimento del danno, appunto, da perdita di vita. 

La tutela penale come sistema sanzionatorio rimane la massima tutela a tale diritto. 

Avendo chiarito questo, possiamo rispondere alle altre domande. Il soggetto deceduto ha subito comunque delle lesioni. Queste ultime hanno inciso sulla salute dell'individuo, in modo tale che non ci sarà il recupero pieno della funzionalità o almeno lo stabilizzarsi della parziale efficienza del corpo. La salute, quindi, è irreversibilmente compromessa e danneggiata e "degrada" verso la morte. Secondo la Corte, come abbiamo visto, alla cessazione della vita non consegue un risarcimento del danno, ma la morte può diventare, se è conseguenza delle lesioni, il termine finale utilizzabile per calcolare il tempo di durata del danno biologico che il soggetto stesso ha subito. Inoltre, il danno alla salute (il danno biologico e non quello tanatologico), come è evidente, raggiunge quantitativamente il cento per cento. Si utilizzano gli stessi criteri, quindi, del danno biologico da "inabilità assoluta temporanea". La temporaneità non è determinata però dalla guarigione, ma dalla successiva morte, da cui il nome: "danno biologico terminale"

Anche se non si postula una vita ,quindi, la perdita del livello della qualità esistenziale nella parte residua della stessa deve essere risarcita, nonostante il fatto che tale danno cessi con la morte. 

Come il giudice può calcolare il danno biologico in questo caso? Il criterio adottato dalla Corte è lo stesso di quello per il danno biologico non terminale. Si utilizzano prima di tutto le tabelle che fanno corrispondere a punti di invalidità un certo risarcimento (nel caso in questione cento per cento). Ciò si spiega in base alla necessità di poter determinare una base uguale da cui partire per tutti i casi che hanno elementi comuni. A questo punto vi è la c.d. "personalizzazione" della liquidazione da parte del giudice; in altre parole, vengono valutati tutti gli elementi che in concreto si sono presentati all'esame dello stesso, tra i quali, appunto: il tempo di durata dell'invalidità (che come detto ha come termine iniziale l'evento lesione e finale la morte) e soprattutto l'irreversibile compromissione della salute, che intensifica fortemente il danno, visto che non c'è possibilità che la stessa migliori o si stabilizzi.

 

Autore: Anna Maria Daniele
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