Sotto il segno di “un mondo migliore”

Margherita Lamesta 23 Nov 2010

Haevnen – in a better world, è il titolo dell’ultimo lavoro di Susanne Bier. Alla V edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, la sensibilità raffinata della cineasta danese è stata, infatti, premiata con due riconoscimenti storicamente in contrasto, giuria e pubblico, vincendo sia il Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio che il Premio Marc’Aurelio del Pubblico al miglior film – BNL. La pellicola, dal titolo spietato (haevnen in danese letteralmente vendetta), si snoda tra Danimarca e Terzo Mondo, dove uno dei protagonista porta il suo aiuto umanitario in qualità di medico. È interessante osservare quanto sia fragile il confine tra il blindato e civilizzato mondo europeo contrapposto alla miseria senza speranza che spopola nel sud del mondo. Eppure tra una società piena di filtri, la danese, ed una società priva totalmente di essi, l’africana, si annidano comunque e indistintamente le ombre imprevedibili e pericolose dell’animo umano, quella parte nera che non sappiamo mai fino a che punto possa spingersi. Ecco come due ragazzini di buona famiglia tanto quanto un alienato e rozzo meccanico possono diventare potenziali terroristi, i quali comprendono, rispondono e agiscono solo nel nome della violenza. Persino il mite Anton-Mikael Persbrandt, che educa i suoi figli mantenendo ben chiaro il valore dell’intelligenza, del dialogo, del perdono, non resisterà all’ennesima provocazione di “Big Man”, dopo averlo diligentemente curato, secondo un giuramento d’Ippocrate in cui crede totalmente. Lascerà, infine, quell’essere mostruoso in pasto all’ira quasi cannibalistica della tribù, dove l’uomo, dai modi tracotanti oltre misura, non fa che seminare morte e terrore.

 

Il film è anche un incisivo spaccato che mette a nudo il problema del bullismo tra adolescenti, i quali, spugna privilegiata del comportamento adulto, diverranno a loro volta adulti, forgiando la propria personalità sugli esempi genitoriali nel bene e nel male. Dice, infatti, la Bier in conferenza stampa che i bambini non sono sempre innocenti, lo sono solo fino a quando non si scontrano con qualcosa di terribile che fa perdere loro quell’innocenza a cui avrebbero diritto, in verità, perché purtroppo gli artigli della vita affondano ovunque e non guardano in faccia nessuno. Anche i bambini possono provocare il male, magari inconsapevoli dello stesso, non frutto di un’intenzione malvagia, eppure dalle conseguenze malvagie, tuttavia. Dunque, un film sulla legge del taglione che domina gli istinti e trasuda attraverso gli interstizi delle nostre dimore edulcorate. Ecco che la regista mette in scena, con una sensibilità inconfondibilmente femminile, il terreno più fertile per l'istinto di rivalsa e per la vendetta: l'aggressività ormonale degli adolescenti, età in cui è splendido ma pericolosissimo constatare che le cose possono essere solo bianche o nere, senza il minimo dubbio di sfumatura.

Un festival quello romano di quest’anno che ha visto protagonista il dolore e la disperazione, mescolandoli tra realtà e finzione, se partiamo dalla protesta dei dipendenti di settore che si sono opposti ai tagli calati come un’impietosa ghigliottina sulla vita degli anelli più deboli, purtroppo.
Il dolore di 170 mila bambini deportati forzatamente in Australia tra il ‘20 e il ’70 e strappati dalle braccia di madri mai rassegnate, colpevoli solo di essere nubili o divorziate o terribilmente povere, regna nella pellicola di Jim Loach. Ecco come si viene facilmente ingannati con la favoletta rassicurante, che consegnando i propri pargoli si potrebbe regalare loro l’opportunità di una vita migliore, in mezzo al sole e agli aranci dorati. Di questa mostruosità tratta Orange e sunshine, l’esordio di un degno figlio d’arte.

Un film mai melodrammatico, equilibrato, in cui gli attacchi ai governi ci sono ma non sono calcati, alla Chiesa australiana idem; una pellicola che avrebbe potuto spiattellare la crudezza di storie drammatiche e raccapricciati ma che il regista preferisce presentare attraverso il filtro della ricerca della protagonista, Margaret, interpretata da una bravissima Emily Watson. L’attrice, infatti, in conferenza stampa, ha ammesso che per interpretare il suo ruolo ha attinto ad un dolore atroce della sua vita piuttosto recente: la scomparsa della propria mamma. Margaret sostenuta dalla sua famiglia conduce una lotta durissima. È anche grazie alla sua famiglia che riuscirà a portare avanti il suo lavoro di ricerca, rischiando persino l’incolumità e mettendo, talvolta, a dura prova l’equilibrio del proprio nucleo familiare, pur di dare una speranza a chi una famiglia non l’ha mai avuta. Eppure lei resiste perché resistono i suoi cari che la sostengono nei momenti più duri, diventando insieme il simbolo della famiglia che alcuni ex bambini meno fortunati arrivano a conoscere disgraziatamente troppo tardi.

Ancora dolore nel film Rabbit Hole , prodotto e interpretato da Nicole Kidman, sotto la direzione di John Cameron Mitchell. Una discesa nel dolore senza soluzione? Niente affatto! Il film risulta consolatorio con uno spiraglio di salvezza nel finale. Sia la Kidman che Aaron Eckhart sono mirabili nell’interpretazione, tanto chiusa lei quanto estroverso lui, con una recitazione di pari alto livello, dal netto contrasto espressivo. La perdita di un figlio dicono sia il dolore più grande che si possa provare, è qualcosa che ti cambia la vita ma ciò non vuol dire che non si possa restare comunque aggrappati alla vita, come evidenzia il film.

Il regista non ci presenta un dolore dalle forme epiche e strappalacrime ma dai risvolti sottili, claustrofobici e quotidiani di chi non riesce a relazionarsi con il mondo se non attraverso un lungo ed inesorabile annientamento di se stesso dentro l’acidità o edulcorando la propria voragine interiore, col rifugio in palliativi come le terapie di gruppo o una possibile scappatella extraconiugale. Su tutto aleggia la figura della mamma di Becca-Kidman, Nat, interpretata da Dianne Wiest, che forse attraverso il dolore, dopo una interminabile macerazione interiore, riesce finalmente a ritrovare un contatto quasi sereno con sua figlia, offrendole una chiave di lettura dettata dall’esperienza.
Passando dall’esperienza del vissuto alla curiosità della scoperta di chi si affaccia alla vita, si approda ad un film tedesco: Poll diaries di Cris Kraus. Alla pellicola, tratta dagli appunti della poetessa Oda von Siering, antenata del regista, è andato il Premio Speciale della Giuria Marc’Aurelio. Un film duro ma molto appassionante, una storia d’amore totale eppure assolutamente casta tra un’adolescente, Oda-Paula Beer, e un anarchico. Il film alterna momenti di lirismo – il ballo tra i due allo scopo evocativo per una romanziera in erba – a scene crude e psicologicamente violente – il suicidio dell’anarchico braccato che finge il sequestro della ragazza, pur di salvarla. Tutti i personaggi sono ben sfaccettati ma chiara è la posizione della protagonista che con coraggio affronta la vita a soli 15 anni, ben lontana da un padre malato di eugenetica, che sembra colpevolizzarla di essere nata donna, per poi elogiarla paragonandola ad un uomo. La giovane, di ritorno da Berlino, con la salma della mamma con cui ha vissuto fino a quel momento, risulta un’estranea nei territori baltici abitati da nobili russi in un momento storico che contiene in sé la carica esplosiva della prima guerra mondiale, agli ultimi stadi di gestazione. Siamo alla vigilia dell’attentato di Sarajevo, infatti. Storicamente al crocevia tra la teorizzazione delle idee naziste, la nostalgia dei malati di zarismo e l’embrionale nascita dell’ideologia anarchico-socialista, è questo il clima che la ragazza respira. La quindicenne, sensibile e intelligente, si sente estranea ad un mondo dalla rigidità disciplinare vuota, preferendo il credo dell’anarchico di cui ha segretamente cura e in cui ravvisa l’unica speranza di attenzione rivolta all’anima dell’individuo.
Guerra, morte, amore, dolore, ecco i temi dominanti quest’anno al Festival di Roma e nel film I fiori di Kirkuk di Feriborz Kamkari, sono tutti inseriti. Peccato che il plot non vada oltre una buona lezione di storia contemporanea, presentando il problema dei curdi clandestini impegnati nella resistenza sotto il regime di Saddam Hussein. In questo clima, il regista inserisce una storia d’amore e di patriottismo decisi al femminile, pur sotto la rigidità e la scarsa libertà d’azione concessa alle donne in Medio Oriente. Una storia d’amore impossibile, dunque, che vorrebbe riportare il mito di Romeo e Giulietta ai nostri giorni. Eppure, nonostante le buone intenzioni e la conoscenza del mondo occidentale da parte del regista che ha studiato in Italia e qui lavora, i troppi temi accorpati non hanno un’evoluzione adeguata, con uno stile un po’ datato, non particolarmente interessante per il pubblico odierno, il quale arriva piuttosto a distrarsi.

Uscendo fuori dalla competizione, We want sex di Nigel Cole è un Fuori Concorso assolutamente degno di nota. Ambientato in una fabbrica inglese della Ford, nel 1968, racconta la storia vera di un gruppo di operaie che si battono per ottenere la parità salariale. Le signore, sconvolgendo i piani del colosso industriale americano, conquisteranno con tenacia e determinazione, attraverso una lotta compatta, la prima legge che sancisce la parità sessuale di trattamento e di diritti sul lavoro.
La pellicola è ben articolata e recitata, sorretta da una sceneggiatura che non lascia spazio a tempi morti, tanto è ben costruita tra ironia, drammaticità, denuncia sociale, intensità d’azione e profondità di pensiero. Il film non è solo uno schiaffo al Governo Laburista del periodo messo in discussione dalla Ministra del Lavoro - “la rossa dal cuore di ferro”, interpretata splendidamente da Miranda Richardson, infatti, avrà un ruolo centrale e determinante per la riuscita della lotta - ma quest’alleanza tra donne è ulteriormente valorizzata dagli evidenti atti d’accusa contro i sindacati. Il regista non risparmia frecciate contro le associazioni sindacali del periodo, coniugate esclusivamente al maschile, vendute al potere e noncuranti dei bisogni reali delle lavoratrici di allora. È così che dopo la visione di film come We want sex – il titolo non vuol dire “vogliamo il sesso” ma si riferisce al divertente incidente di percorso durante una manifestazione delle operaie: uno striscione aperto a metà su cui era scritto We want sexual equality – si resta sempre un po’ rammaricati circa l’assenza di opere cinematografiche così valide dalla rosa delle pellicole in competizione.
Tornando, dunque, ai film in concorso, passiamo al vincitore del Festival Internazionale del Film di Roma, edizione 2010, Kill me please di Olias Barco. Si tratta di una pellicola sul tema dell’eutanasia, attraverso i toni della commedia noir. Il film risente dell’influenza di Marco Ferreri, specie ai tempi de La grande abbuffata – è stato lo stesso regista ad ammettere di essersi ispirato al capolavoro italo-francese. Zazie De Paris, il trans della pellicola, ha dichiarato, inoltre, in conferenza stampa, la delicatezza di un argomento come l’eutanasia che tocca nell’intimo la dignità ed il credo di una persona e che in quanto tali non possono essere teorizzati in una legge, col rischio di ledere il principio stesso di individuo e di libertà. Il film, divertente e scanzonato, assume spesso i toni grotteschi e le venature di uno stile da Grand Guignol ma resta il dubbio sul risultato della pellicola. Difficile, infatti, ravvisare nel lavoro belga una sublimazione della vita attraverso la morte teorizzata, invece, magistralmente nel film di Ferreri che si avvalse, oltretutto, di quattro interpreti d’eccezione (Mastroianni-Tognazzi-Piccoli-Noiret). Su tutto fa da cornice l’interpretazione dell’inno nazionale francese - unico momento musicale di un film altrimenti privo di colonna sonora - presentato come un’accusa verso un testo tanto sanguinario…e pensare che dalla Rivoluzione Francese ha avuto origine l’era contemporanea!

Andando indietro nel tempo e restando nel mezzo del concorso, ecco un film italiano su Gesù Cristo secondo Maria. Io sono con te di Guido Chiesa è uno spaccato laico dell’infanzia di Gesù, sin dalla sua nascita. All’insegna di un’educazione fuori dalle regole, con genitori rivoluzionari e un padre che rispetta, accoglie e protegge il delicato equilibrio tra madre e figlio, su cui non interferisce mai, siamo completamente lontani dalla santità, che non avvolge nessuno dei personaggi. Eppure il tema si sviluppa secondo gli eventi presenti nel Vangelo, compresa la sanguinaria strage degli innocenti, che il regista presenta nella sua feroce crudezza. Una femminista ante-litteram sembrerebbe Maria, calata in un’ambientazione completamente antispettacolare e forse non del tutto credibile nè conciliabile con il suo grande peso storico, prima che religioso. L’operazione del regista ha comunque dalla sua l’aver posto l’accento sull’importanza dei primi anni di vita dell’individuo, nei quali si decidono le capacità di amare e di relazione delle persone, al di là di chi queste siano, il Cristo o un qualunque comune mortale.
Ancora una volta, dunque, il cinema italiano esce a bocca asciutta dal parterre dei premiati ma, come accadde l’anno scorso a Sergio Castellitto, quest’anno Presidente di Giuria, un suo degno collega, Toni Servillo, si è aggiudicato il Marc’Aurelio al miglior attore per l’interpretazione nel film Una vita tranquilla di Claudio Cupellini. Per par condicio va aggiunto, inoltre, che il Marc’Aurelio alla miglior attrice, quest’anno, lo incassa l’intero cast femminile del film messicano Las Buenas hierbas della regista Marìa Novaro.
Dopo l’ennesima sconfitta italiana, dunque, riaffiora il dubbio sulla qualità del cinema di Casa Nostra, non solo a causa della scarsità di soldi quanto piuttosto in relazione all’apporto di sceneggiatori, storie e registi lungimiranti e geniali. Il Nostro degli ultimi decenni resta un cinema minimalista, a volte confondibile con la fiction, un cinema che quando ottiene qualche risultato lo deve alla capacità di alcuni suoi attori - categoria ancora ammirata e considerata, a quanto pare. Chissà cosa potrebbero ottenere i Nostri attori, dunque, se fossero meglio supportati da tutta una macchina filmica all’altezza del loro standard di talento?! Peccato, tuttavia, che anche tra gli attori non sempre si abbia la curiosità, la volontà e la voglia di andare a caccia di nuovi talenti. È la solita mentalità di salvaguardia del proprio orticello, dalla matrice tristemente provinciale, la quale oscura quelle potenzialità che tante risorse nascoste potrebbero regalare. Non resta che confidare, dunque, in nuovi spazi da dedicare al cinema, invece di paventarne la chiusura…se non altro per continuare a sperare!!

 

Margherita Lamesta

Ultima modifica il Martedì, 06 Marzo 2012 14:19
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