Si tratta però di un allungamento del collo solo apparente. Sono infatti le clavicole che, per effetto della continua pressione esercitata dai dischi di metallo sotto il peso del cranio, si abbassano e si schiacciano vistosamente, determinando un effetto ottico per cui sembra che tali donne abbiano un collo di lunghezza molto al di sopra della norma.
Per quanto concerne l'origine di tale pratica esistono differenti tesi. Per alcuni i dischi di metallo non avrebbero altro fine che quello ornamentale e di distinzione rispetto alle donne di altre popolazioni della regione. Per altri invece tale usanza deriva da tradizioni religiose che legano tali popolazioni ai dragoni Naga; secondo altre tesi più folcloristiche si tratterebbe addirittura di un sistema di difesa delle donne nei confronti degli attacchi delle tigri, animale un tempo molto presente in questi territori.
Qualunque sia l'origine dell'antica pratica, recandosi in uno dei villaggi Kayan, è palese come questa tradizione sembra avere ancora oggi una forte presa anche sulle giovani Padaung.
Secondo i ricordi d'infanzia di Pascal Khoo Thwe, esule di etnia Padaung ed autore del libro "Il ragazzo che parlava col vento", si tratta di una pratica dal forte valore identitario che contribuisce a mantenere saldo il rapporto tra questa popolazione, la propria storia e la propria cultura. Le "armature", come Pascal Khoo Thwe definisce gli anelli di metallo che le donne indossano al collo, avevano ed hanno ancora oggi, poteri magici e miracolosi, in grado di curare malattie e di conferire forza straordinaria a coloro che hanno il privilegio di toccarli.
Dunque, secondo l'autore, il motivo della prosecuzione di questa specifica pratica è da ricercarsi nel legame con le tradizioni della propria etnia.
Potrebbe essere così, o meglio sarebbe molto bello se fosse solo questa la motivazione che spinge le donne Kayan a proseguire tale tradizione.
Purtroppo ad inficiare, o per lo meno a rendere solo parziale tale tesi, contribuisce in maniera determinante la condizione in cui vivono le popolazioni di etnia Kayan sul suolo thailandese.
Apolidi e privi di uno status legale e senza il diritto di poter lasciare i territori da loro assegnati dal governo thailandese, gli appartenenti all'etnia Kayan vivono una condizione di "semi prigionia".
Gli individui Kayan non possono lavorare sul territorio thailandese, non possono dormire al di fuori delle proprie "riserve" e non possono ottenere la cittadinanza del Paese che li "ospita".
In una condizione del genere è naturale ipotizzare che il proseguimento della antica pratica dei dischi di metallo posti intorno al collo rappresenti l'unica fonte di sopravvivenza per il popolo Kayan.
Attirare i turisti, comunque assai scarsi da queste parti, attraverso questa pratica, chiedere loro di pagare una somma di 250 Bath (circa 6 euro) per il loro ingresso nel villaggio proponendo poi l'acquisto di prodotti dell'artigianato locale, è l'unico modo che tale etnia ha di poter soddisfare i propri naturali bisogni, di potersi garantire trattamenti sanitari e di poter finanziare autonomamente l'educazione dei propri figli.
Una condizione, quella dell'etnia Kayan, che in passato ha attirato l'attenzione delle organizzazioni internazionali ma di cui, con il tempo, si è smesso di parlare.
Una realtà che induce, per sopravvivere, alcuni individui, ed in particolare le donne di uno specifico gruppo etnico, a svendere e spettacolarizzare alcuni nobili aspetti della propria cultura e delle antiche tradzioni.
Una palese violazione dei diritti umani che meriterebbe l'attenzione non solo delle Organizzazioni umanitarie ma anche dei numerosi turisti che ogni anno visitano il Paese del sorriso.
Fabrizio Giangrande
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Foto
http://it.wikipedia.org/wiki/File:Kayan_woman_with_neck_rings.jpg