I ricercatori Unipi hanno “annusato” le tracce dei composti organici residui


I ricercatori dell’Università di Pisa hanno investigato per la prima volta il contenuto di circa cinquanta vasi e anfore provenienti dalla tomba di Kha e Merit del Museo Egizio di Torino risalenti a circa 3500 anni fa. L’indagine è avvenuta senza aprire o intaccare i reperti grazie ad una innovativa metodologia che ha permesso di “annusare” le tracce dei composti organici residui. Nei preziosi contenitori in alabastro sono stati identificati resine e unguenti spesso insieme a cera d’api, uno dei materiali più rinvenuti perché usato sia come conservante sia come base per la preparazione di cosmetici. Nelle anfore i ricercatori hanno poi rintracciato pesci essiccati e molecole volatili la cui presenza potrebbe essere associata a farina d’orzo o addirittura birra come suggerito dalla presenza di composti volatili specifici della fermentazione dei cereali.

 

UAVIMALS, il prototipo aereo laser scanner di piccole dimensioni, utile per le indagini di archeologia leggera, è il frutto di una ricerca interdisciplinare tra archeologia e biorobotica, condotta dalla Sapienza e dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.


Si è concluso il progetto UAVIMALS, una ricerca interdisciplinare tra archeologia e biorobotica, condotta dalla Sapienza Università di Roma e dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e tesa alla realizzazione di un prototipo aereo laser scanner, di piccole dimensioni, utile per le indagini di archeologia leggera. Il progetto è stato sostenuto da un finanziamento della National Geographic Society ottenuto nel settembre del 2018, con un Early Carrer Grants (EC-50761T-18) da Federica Vacatello (project leader e PhD in Archeologia – curriculum di Archeologia ed Antichità post classiche - presso il Dipartimento di Scienze dell’antichità della Sapienza), che ha coadiuvato un gruppo di ricerca composto da archeologi, ingegneri e tecnici di bio-robotica.


 

La ricerca condotta dai paleontologi dell’Università di Pisa e del New York Institute of Technology ha fatto luce anche sull’origine dell’Orca, un altro superpredatore dei mari attuali.


Quando è che i cetacei hanno cominciato a nutrirsi di altri mammiferi marini? Probabilmente in tempi molto recenti, almeno così sembra dal ritrovamento in Grecia di uno straordinario delfino fossile, simile e imparentato con l’attuale pseudorca (Pseudorca crassidens). Questo fossile è stato, infatti, ritrovato insieme al suo ultimo pasto, rappresentato da resti di pesci. La conferma arriva anche dallo studio di un reperto scoperto in Toscana oltre un secolo fa, parente stretto dell’attuale orca (Orcinus orca).

La pseudorca e l’orca sono gli unici cetacei attuali che si nutrono di altri mammiferi marini. Le pseudorche catturano spesso altri delfini, mentre le orche predano non solo foche e piccoli cetacei ma anche balenottere lunghe più di 10 metri.

 

L’enigmatico fossile ritrovato nei pressi di Ponte Galeria (Roma) è stato analizzato da un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e dell’Università Statale di Milano. La ricostruzione 3D dei resti ha permesso di identificare il fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus) in Europa, databile a circa 400.000 anni fa. I risultati dello studio, che gettano nuova luce sulle dinamiche di diffusione del lupo nel nostro continente, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.


Il lupo è una delle specie più emblematiche della biodiversità europea, animale simbolo delle foreste del nostro continente, così radicato nel nostro immaginario da entrare a far parte della cultura, del folklore e della tradizione di tutti i popoli europei. Sebbene l’uomo conviva con il lupo da migliaia di anni, la storia evolutiva di questo predatore iconico è ancora fonte di dibattito nella comunità scientifica, con punti interrogativi sul momento in cui questo animale si è diffuso nel nostro continente.


La scoperta di uno dei più antichi templi buddhisti al mondo nell’antica città di Barikot, nella regione dello Swat, è il frutto dell’ultima campagna di scavo della missione italiana in Pakistan. La datazione si attesta intorno alla seconda metà del II secolo a.C., ma probabilmente risale ad età più antica, al periodo Maurya, dunque III secolo a.C., ma solo le datazioni al radiocarbonio (C14) ce ne daranno certezza. La scoperta getta una nuova luce sulle forme del buddhismo antico e la sua espansione nell’antico Gandhara e aggiunge un nuovo tassello a ciò che si conosce sull’antica città.

Direttore di quella che è la più antica missione archeologica italiana attiva in Asia è da diversi anni il professor Luca Maria Olivieri dell’Università Ca’ Foscari Venezia (Dipartimento di Studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea). La missione fondata nel 1955 da Giuseppe Tucci è gestita dal 2021 anche dall’ Ateneo veneziano in collaborazione con l’ISMEO (Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente), con il co-finanziamento del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, in collaborazione con il dipartimento provinciale pakistano di archeologia (DOAM KP) e con il locale Swat Museum.

 


Sono almeno sette esemplari di Tethyshadros insularis, tra cui “Bruno”, il più grande e completo dinosauro mai rinvenuto in Italia. Hanno 80 milioni di anni, erano più grandi di quanto pensato finora e vivevano in un ecosistema unico sulle sponde di un antico oceano.
C’è un branco di dinosauri in Italia. Numerosi scheletri in perfetto stato di conservazione sono stati ritrovati nel sito di Villaggio del Pescatore, comune di Duino-Aurisina, a pochi chilometri da Trieste. La scoperta è stata riportata da un gruppo internazionale di ricerca coordinato da studiosi dell'Università di Bologna in un articolo pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature.
Gli straordinari scheletri venuti alla luce appartengono alla specie Tethyshadros insularis: si tratta di almeno sette esemplari (ma probabilmente sono undici), tra cui in particolare un nuovo dinosauro, soprannominato “Bruno”, che rappresenta il più grande dinosauro mai rinvenuto in Italia.


Nello stesso sito sono stati inoltre ritrovati pesci, coccodrilli, rettili marini e persino piccoli crostacei: tutti elementi che hanno permesso di ricostruire una vivida immagine di questo antico ecosistema senza eguali al mondo. I reperti rinvenuti al Villaggio del Pescatore possono essere oggi ammirati al Museo Civico di Storia Naturale di Trieste, concessi in deposito da parte del Ministero della Cultura. "Per la prima volta abbiamo in Italia un giacimento di dinosauri, in cui non solo troviamo i resti di questi animali, che sembrano appartenere a mondi lontani da noi, ma ne troviamo tanti, insieme agli animali che con loro condividevano quel mondo perduto", dice Federico Fanti, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell'Università di Bologna, che ha coordinato lo studio. "Questo sito eccezionale è un luogo dove dal terreno possiamo, e lo stiamo facendo, estrarre tanti scheletri di dinosauri, uno più spettacolare dell’altro; e questa è la prima volta in cui sappiamo esattamente dove continuare a scavarli".


Un risultato raggiunto grazie alla collaborazione tra Sapienza e Roma Tre con il Parco Archeologico dell’Appia Antica durante le attività di scavo
Un tratto dell’antica Via Latina è ritornato alla luce nel settore più meridionale della Villa di Sette Bassi a Roma Vecchia, l’estesa area archeologica caratterizzata da resti imponenti compresa tra la via Tuscolana, il Parco degli Acquedotti e il quartiere di Lucrezia Romana. Il ritrovamento è avvenuto la scorsa settimana nell’ambito delle ricerche condotte da tempo su un nucleo edilizio in netto distacco dal settore più monumentale dei resti, dislocato nella zona meridionale dell’area archeologica.



La European Association of Archaeologists (EAA) ha assegnato a Roma l’organizzazione del 30° Annual Meeting per il 2024, come annunciato nel suo Business Meeting del 10 settembre 2021. Si tratta della prima volta a Roma e la terza in Italia (dopo Ravenna 1997 e Riva del Garda 2009).


L’EAA è la maggiore organizzazione di appartenenza degli archeologi in Europa, nata nel 1994 per riunire insieme l’intero continente con la sua storia comune e fatta di intrecci continui. L’EAA ha attualmente circa 3000 membri dall’Europa e dal mondo, che rappresentano tutte le differenti figure di archeologi, dai professionisti agli accademici agli esperti del Patrimonio, e molte altre figure ancora, al lavoro su ogni tipo di contesti, cronologia e temi.

La Sapienza ha promosso e sarà il cuore dell’iniziativa, che coinvolge e ha ricevuto il supporto dal Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (Cnr-Ispc) e da colleghi o Dipartimenti di tutte le università statali di Roma e del Lazio: Università di Roma Tor Vergata, di Roma Tre, della Tuscia a Viterbo e di Cassino e del Lazio meridionale.


L’oggetto in avorio, studiato da archeologi e storici del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, è unico per caratteristiche, dimensioni e stato di conservazione. 


Un tesoro del passato che svela nuovi dettagli sulla vita di Pisa in epoca romana, quando l’attuale Piazza dei Miracoli, a pochi passi dalla Torre pendente, era occupata da un complesso residenziale di domus individuato a seguito di una campagna di scavi condotti dalla Soprintendenza Archeologica per la Toscana, in collaborazione con l’Università di Pisa, tra il 1985 e il 1988. Si tratta di un orologio solare miniaturistico in avorio databile tra la metà del II secolo a.C. e la fine del I secolo a.C., un oggetto eccezionale per le sue dimensioni, per il suo stato di conservazione e per i dettagli di fattura che lo rendono un ritrovamento unico nel mondo greco-romano.

Nel medio e lungo periodo, gli shock climatici incentivarono, attraverso l’ampliamento dei diritti politici e di proprietà, una cooperazione altrimenti difficile tra le élite che detenevano il potere decisionale e altri gruppi che possedevano invece strumenti utili per superare la crisi.

Nella Mesopotamia dell’Età del Bronzo, le crisi climatiche hanno incentivato, nel lungo periodo, lo sviluppo delle prime forme stabili di stato e hanno così facilitato la cooperazione tra le élite politiche e il resto della popolazione. Lo mostra uno studio pubblicato sulla rivista PNAS e firmato da due studiosi dell’Università di Bologna e dell’Università Eberhard Karls di Tubinga (Germania). L’indagine ha analizzato l’impatto degli shock climatici che si sono succeduti nella regione tra il 3100 e il 1750 avanti Cristo. Per farlo, gli studiosi hanno utilizzato un approccio econometrico basato sulla teoria dei giochi e applicato alla prima dettagliata banca dati sull’evoluzione climatica e istituzionale dei maggiori 44 stati mesopotamici.

 

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